venerdì 4 ottobre 2019

David Bowie: "Hours..." (1999)

l 4 ottobre di vent'anni fa veniva pubblicato "Hours...", ventunesimo album in studio di quel genio di David Bowie, salutato come un ritorno alle sonorità più classiche e l'approdo a una dimensione più intimista e riflessiva sullo scorrere del tempo.




(il disco completo si può apprezzare qui --> https://tinyurl.com/y6czsy5v)


Nel 1999, David Bowie può festeggiare i 30 anni dal primo singolo di successo pubblicato a suo nome guardandosi indietro e ammirando ad una carriera più unica che rara, costantemente in anticipo sui tempi o, nei casi peggiori, adeguandosi perfettamente ad essi.

Camaleontico e poliedrico, Bowie aveva passato gli ultimi 4 anni a flirtare con le sonorità industrial portate sulla ribalta mainstream dai Nine Inch Nails, con la Jungle e la Drum’n’bass, in breve con tutto ciò che negli anni ’90 era fresco e “nuovo”. Arrivato alle porte del nuovo millennio e, appunto, dopo una carriera ultratrentennale, Bowie inizia a farsi domande sul senso della sua esperienza, e a tracciare i primi bilanci della sua avventura.

Al suo rapporto col tempo, e con la sua vecchiaia, è dedicato l’opening di “Thursday’s child”, soffice ballata electro-pop dalla melodia squisitamente vintage (e il cui videoclip getta i semi per tutte le riflessioni sul doppio che verranno messe in scena nel gran finale della carriera del Nostro, in particolare in “The stars (are out tonight)”), il cui tema lirico, il rapporto tra la “persona” artistica e l’uomo dietro le maschere raggiunge forse il suo apice nella splendida “Seven”, ballatona elettroacustica un po’ piaciona, ma di grande impatto emotivo.

Impatto che il blues “modernista” di “If I’m dreaming my life” e il simil-rock di “The pretty things are going to hell” non riescono ad avere appieno, benchè abbiano tutte le carte in regola per essere considerate dei buoni riempitivi. Allo stesso modo “Brilliant Adventure” richiama alla mente i momenti più berlinesi del passato del nostro, e non risalta per originalità ma di certo fa il suo mestiere.

Lo stesso purtroppo non si può dire di “New angels of primise” e “The dreamers”, prese in mezzo tra una produzione un po’ troppo luccicante e una performance vocale non all’altezza dei migliori momenti di Bowie. E se “What’s really happening” e “Survive” sono pezzi perfettamente al passo coi tempi (ma poco più di questo), “Something in the air” fallisce nel tentativo di costruire atmosfere accattivanti e risulta piuttosto noiosa, con l’aggravante di essere seconda nella tracklist.

Le sessioni di registrazione di “Hours” avvennero in parallelo con quelle della colonna sonora del videogame “A nomad soul”, ad un personaggio del quale Bowie donerà anche le proprie fattezze. E se il videogame risulterà un mezzo flop per via della sua smisurata ambizione, “Hours” sarà un all-time-low nella carriera del nostro, perlomeno a livello di vendite, ma per il motivo inverso: la mancanza di mordente delle interpretazioni, un songwriting discreto e nulla più e la summenzionata produzione plasticosa relegano quest’album in una posizione minore nella prestigiosa discografia dello smilzo Duca Bianco. “Thursday Child” e “Seven” sono le sole canzoni ad avere più di un’ombra dell’ispirazione dei tempi migliori, e il resto del disco scorre senza intoppi, ma anche senza lasciare una traccia duratura. Succede anche ai migliori.

- Spartaco Ughi

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