sabato 7 settembre 2019

Muse: "Showbiz" (1999)

Il 7 settembre di vent'anni fa vide il debutto su LP con "Showbiz" una delle band di maggior successo degli anni zero, ovvero i britannici Muse. Il disco, ricavato da una selezione di innumerevoli composizioni realizzate nei cinque anni passati a fare gavetta prima del debutto, assorbe suggestioni glam, metal e l'ira di Thom Yorke, che li accusa di copiare i Radiohead solo perché hanno preso come produttore John Leckie (che aveva realizzato "The Bends" per il suo gruppo).



(per ascoltare il disco completo, potete andare qui --> https://tinyurl.com/yxmptdko)




Nel settembre del 1999 il debutto dei Muse gettava le fondamenta di uno dei culti più peculiari e controversi del rock anni ’00, e di uno dei suoi più stupidi equivoci. “Showbiz” è lo splendido-imperfetto primo lavoro di una band che segnerà, nel bene e nel male, il decennio successivo.

Matthew Bellamy, Dominic Howard e Chris Wolstenholme, nel 1999, hanno poco più di vent’anni. La leggenda vuole che ci siano, già a questo punto, più di cinquanta canzoni scritte (da Bellamy, voce chitarra e tastiere del power trio) e registrate sotto forma di demo per la produzione di Paul Reeve. L’epopea dei Muse cominciò cinque anni prima, quando la band vinse un contest locale col nome di “Rocket Baby Doll” e decise di dedicarsi seriamente alla carriera musicale. Nel quinquennio che connette quella decisione all’esordio su LP con questo “Showbiz” si contano 2 EP, “MUSE” e “Muscle Museum”, un contratto americano con la Maverick, famosa per essere l’etichetta discografica di Madonna, e la nomea di 'Next Big Thing' che circola tra gli addetti ai lavori.

L’eterogeneità delle tracce che costituiscono “Showbiz” è facilmente spiegata dalla sua storia produttiva: buona parte delle 13 canzoni erano già pronte nel 1997, e i due EP che precedono questo disco di fatto ne contengono ampi spoiler. Brani quali “Fillip”, “Sober”, “Escape” e “Overdue”, tra i primi pubblicati dalla band, mostrano l’ascendenza prettamente post-grunge, sulla scia di gruppi americani quali Smashing Pumpkins e Alice in Chains, dei Muse degli esordi; d’altro canto, l’ultraballad “Unintended”, il quasi-prog di “Hate this and I’ll love you” e il pop-rock acidissimo di “Muscle Museum” potrebbero tranquillamente accomodarsi nel capolavoro incompreso “Dog Man Star”, disco di punta della discografia dei compatrioti Suede. Indicativo della qualità del gruppo, tuttavia, che i brani più memorabili siano anche quelli più difficili da classificare: la title track è una lunga cavalcata nevrotica, una non-canzone dal testo ossessivo e dall’incedere inesorabile e angosciante; “Cave”, al contrario, è un florilegio di strofe, ritornelli, bridges e code bagnate delle sonorità distorte e melodrammatiche che caratterizzano i Muse nei loro momenti di maggior successo; “Uno” è una milonga-rock con chitarre flamenco, “Falling Down” un blues strappacuore, “Spiral Static” un brano di space rock paranoico e psichedelico, ed è un peccato che sia presente come bonus track solo nell’edizione giapponese del disco (ma in questo modo saranno pubblicate altre canzoni straordinarie, in futuro).

“Sunburn”, che apre l’album, è il primo capolavoro di Bellamy e un vero manifesto programmatico, con la sezione ritmica in gran forma a sostenere la tempesta di pianoforte, chitarra e falsetto congiurata dal frontman. L’uso massiccio del pianoforte, anche in sostituzione della chitarra, è decisivo nel dare a “Showbiz” una personalità ben decisa, allontanandolo ulteriormente dal morente movimento brit-pop. Il responsabile di questa scelta è John Leckie, il produttore artistico. Leckie all’epoca era noto per aver lavorato sugli esordi degli Stone Roses e dei Verve, ma soprattutto per il secondo disco dei Radiohead, “The Bends”.

Lo stile di Leckie, infuso profondamente nelle atmosfere di “Showbiz”, verrà usato da Thom Yorke (già allora tanto talentuoso come artista quanto spiacevole come persona pubblica) per una polemica degna di un Liam Gallagher qualsiasi nei confronti del trio, supposti rei di “plagio” nei confronti dei Radiohead. Quest’episodio è alla base della dicotomia con i Radiohead che accompagnerà i Muse per buona parte della loro carriera, e che se già ha ben poco senso quando si paragona “Showbiz” ai lavori precedenti dei Radiohead, meno di zero ne avrà poi, a partire
dall’uscita di “Origin of Simmetry”, ma per allora la vulgata avrà già interiorizzato come un mantra questa sostanziosa minchiata. Si può discutere della plateale citazione di “The Bends” (il brano) contenuta in “Muscle Museum”; si può sviscerare l’influenza di Leckie nelle atmosfere e nella produzione, con vasto uso di sovraincisioni di chitarra e piano; si può certamente paragonare la voce di Bellamy con quella di Yorke, entrambe acute e tendenti all’angst. Ma rimane l’immane differenza, anche filosofica, tra un quintetto ispirato al jazz ed all’elettronica e un trio ispirato alla musica classica ed al metal; tra una band che fa delle sfumature sonore e dell’ambiguità poetica dei suoi testi uno dei suoi marchi di fabbrica, al punto che ampie porzioni della sua discografia sono difficilmente classificabili come “rock”, e una che fa di tutto per tenere insieme l’afflato epico del prog e del glam e le ruvidezze del (post-)punk, una miscela che se non è rock, allora venite qui voi a scrivere questa recensione e spiegatemi cosa lo è. Un semplice sgarbo da parte del leader della band di maggior successo del pianeta (successo anche commerciale, tocca sempre ricordarlo: perché Yorke è un genio in molti ambiti, e tra questi c’è senza dubbio il marketing. Altrimenti come potrebbe una band da oltre 30 milioni di copie vendute riuscire ancora a caratterizzarsi come “alternativa”? Alternativa a cosa?) è bastato a generare un equivoco lungo più di un decennio, nonché un interminabile paragrafo di questa recensione.

L’ambizione sfrenata di Bellamy e soci è qui già chiaramente visibile e in piena maturazione, pronta a produrre prima almeno un capolavoro (YAY!), e dopo uno dei più tristi casi di dinosauri rock del ventunesimo secolo (BUU!); “Showbiz” è bello e acerbo, intenso e non perfettamente bilanciato, e pur non contenendo canzoni bruttenemmeno riesce a brillare incondizionatamente, al di là dell’opening di “Sunburn”.

Il portentoso falsetto da controtenore di Bellamy, il distorsore fuzz, i virtuosismi al pianoforte, nonchè una sezione ritmica fuori categoria per capacità tecniche e (soprattutto) creatività sono già ben evidenti. L’album si rivelerà un discreto successo commerciale, superando il mezzo milione di copie in Europa e posando le fondamenta di una fanbase cui l’aggettivo “devota” va davvero stretto: i Muse diverranno oggetto di un culto ossessivo, rimasto marginale nel panorama del rock europeo almeno fino all’uscita di “Absolution” e allo stesso tempo capace di agglutinare folle di fedelissimi, pronti tanto a partecipare a bizzari giochi di decrittazione di codici e ad accalcarsi in palazzetti e festival per assistere al rito pagano officiato da una delle migliori live-band della storia, certamente la più intensa della propria generazione.

Delle decine di canzoni non incluse in "Showbiz", alcune vedranno la luce in raccolte di b-sides (l’EP "Random 1-8" nel 2000, la raccolta “Hullabaloo” nel 2002), e probabilmente Bellamy avrà cominciato da qualche anno a maledirsi per averle bruciate così, quando avrebbero potuto evitargli (ed evitarci) i chiari segni di calo dell’ispirazione contenuti negli album più recenti. Pazienza, sono ancora su Youtube.

- Spartaco Ughi


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