mercoledì 11 settembre 2019

Muse: "The Resistance" (2009)

Si festeggiano oggi i dieci anni dall'uscita di "The Resistance", a nostro parere l'ultimo grande disco degli inglesi Muse. Diviso fra brani terribilmente ambiziosi e altri dalle ambizioni terribilmente commerciali, è indubitabilmente un'opera riuscita.




(disco completo qui: https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_nt5acJTCFwMg9gQPimWk8wkrY7rpBKg20)




Dieci anni fa usciva il quinto album dei Muse, disco particolarmente controverso nella già dibattuta discografia della band, il primo promosso con un intero tour negli stadi ma anche l’ultimo sorretto da un songwriting di qualità. Tra le prime derive r’n’b e il coronamento delle decennali istanze progressive della band, amato da pochi e (nella migliore delle ipotesi) tollerato dagli altri, “The Resistance” è un disco più intelligente di quel che sembra, e che vale la pena ascoltare.

Una bizzarra coincidenza dovuta dalle regole della casa (cioè di questo blog/pagina facebook) impone che io mi appresti a scrivere di questo “The Resistance” a poche ore di distanza dall’aver terminato la recensione di “Showbiz”, uscito dieci anni e pochi giorni prima. E se l’esordio del trio del Devonshire era un seme non ancora schiuso, la loro quinta fatica genera i frutti più maturi della loro carriera e certifica il loro status di superstar di primissimo piano. Ma andiamo con ordine.

“The Resistance” è stato registrato nello studio casalingo di Bellamy (voce, chitarra, tastiere e principale penna della band), sul lago di Como, ed è il primo album dei Muse prodotto in totale autonomia, in particolare senza quel Rich Costey che aveva disciplinato la vena creativa della band e ne aveva affilato il suono nei precedenti “Absolution” e “Black Holes and Revelations”.

Il risultato del lavoro indipendente del trio è un disco che prosegue i temi cospirazionisti e rivoltosi dei suoi predecessori, con un focus sulla crisi subprime del tardo 2007, sui temi ambientali, e una bella spruzzata di fantascienza che parte distopica e arriva space-opera ad alleggerire il tono.

A livello strumentistico, è notevole lo stato di forma della sezione ritmica e in particolare del bassista Chris Wolstenholme, autore qui di diverse prove maiuscole, specialmente in “Resistance”, “United States of Eurasia”, “Unnatural Selection”. L’autoproduzione in qualche modo toglie un po’ di personalità al mood complessivo dell’album, che risulta ben fatto ma un po’ grigio e monocorde in confronto al caleidoscopio di strati sonori di “Black Holes and Revelations”; il songwriting di Bellamy, d’altro canto, è qui al suo zenith per efficacia pop, raggiungendo un invidiabile equilibrio di stile, anzi di stili.

Proprio l’eclettismo di “The Resistance” rappresenta la sua caratteristica più interessante, e molto poco esplorata, una chiave di lettura per il disco e, forse, per l’intera carriera dei Muse fino a quel momento. Seguitemi perchè il discorso è lunghetto.

I primi tre brani di “The Resistance” sono anche i suoi singoli, in ordine di pubblicazione: il techno-rock ballabile di “Uprising”, che (parafrasando al linguaggio d’oggi) inneggia alla rivolta contro l’1%; “Resistance”, pop-rock vagamente Killers-iano, sull’amore ai tempi del controllo totale, “ispirata” alla più famosa opera di George Orwell; e “Undisclosed Desires”, primo vero brano r’n’b del trio (l’unico buono, aggiunge chi scrive). Tre canzoni essenzialmente radiofoniche, chiaramente “commerciali”, quasi da manuale del singolo di successo.

A seguire, “United States of Eurasia” è un brano dall’afflato sinfonico, un pochino prog e un po’ tanto Queen, incui si vaneggia di unificare l’intero continente eurasiatico in una maniera che io, ancora oggi, non ho capito se sia seria, satirica, o ironica. A certificare l’ascendenza prog di “United states of Eurasia” c’è “Collateral Damage”, variazione sul tema di un celebre notturno di Chopin, suonato su un sottofondo ambientale di missili che migrano (per citare un altro disco uscito quell’anno). Poi giunge “Guiding Light”, che cita gli Ultravox di “Vienna” e le chitarre (e i testi un po’ melensi) degli U2; poi ancora “Unnatural Selection”, brano di hard’n’heavy anni ’90, un po’ Queens of the Stone Age, seguito dal puro Muse-rock di “MK Ultra”; e ancora “I belong to you”, sorprendente piano-ballad a tema amoroso vagamente McCartneyana, intervallata da un secondo inserto classico, stavolta operistico, con un estratto del Sansone e Dalila di Camille Saint-Saens.

Il disco si chiude con una “sinfonia”, o più propriamente un mini-concept spaziale in tre atti, con chitarroni nucleari e pianoforti spaziali e riferimenti all’origine della vita, intitolato “Exogenesis” e poi pubblicato anche come EP a sè stante.

Gli undici brani del disco possono perciò essere scomposti in una sequenza 3-5-3, con i tre movimenti di “Exogenesis” a fare da eco, opposto e speculare, ai tre singoli che aprono il disco.

Ai cinque brani della sezione centrale può essere assegnato un genere o, più appropriatamente, un decennio della storia del rock. La prima e l’ultima canzone di questo quintetto marcano il territorio grazie ai due intermezzi classico/operistici, che forse hanno anche l’intenzione di “nobilitare” l’operazione con un tocco di intellettualismo. Letto in questo modo, “The Resistance”è un riassunto sintetico, persino sbrigativo, ma piuttosto accurato di cosa il rock sia, se non in generale, almeno per Bellamy, un modo di ricapitolare un decennio di carriera discografica baciato dall’ispirazione della musa, una lettera d’amore a questo genere e alla sua storia.

“The Resistance” manca di un brano-capolavoro, come potevano essere “Plug in baby” e “Knights of Cydonia” in lavori precedenti, ma riesce in un lavoro di giocoleria in cui tutti i birilli fin qui lanciati in aria (i temi lirici, gli stili, il songwriting) riescono miracolosamente a rimanerci, regalando momenti di emozione genuina nell’intermezzo blues di “Unnatural Selection”, nelle reminescenze di “Microcuts” di “MK Ultra”, nella pompa magna dei cori di “United States…”, persino in nei momenti più stucchevoli delle ballad e nei più ovvi earworms dei singoli. I primi due movimentidi “Exogenesis” da soli valgono il disco, e l’inferiore qualità del terzo è la principale delusione (relativa) dell’album.

E se è vero che il supposto intellettualismo dispiegato da Bellamy è superficiale e un po’ pacchiano, che il disco abbonda di cliché e 'hommages', che i Muse sono i Muse e se vi stan sul culo non c’è santo che tenga, non si può in tutta coscienza non promuovere questo disco.

Se chi scrive aveva amato “The Resistance” all’epoca della sua uscita, a distanza di dieci anni non può non vederne la superficialità, da un lato, e l’eccessiva ambizione, dall’altro. Ma anche così, anche al netto dei suoi difetti, questo disco rimane un eccellente album di rock prettamente “commerciale”, easy-listening, col senno di poi l’unico pubblicato da Bellamy e soci (perchè i precedenti avevano tutti, più o meno, ambizioni sperimentali) in tutta la loro carriera, prima di un declino rapido, inesorabile… doloroso. Lunga vita alla Resistenza.

- Spartaco Ughi

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