sabato 21 settembre 2019

Chris Cornell: "Euphoria Morning" (1999)

21 settembre, anno 1999, Chris Cornell, archiviata (per il momento) la propria esperienza con i Soundgarden, pubblica il suo primo album solista, "Euphoria Morning".





Bene, sappiamo che non è mai facile staccare il cordone ombelicale dalla propria band madre, il gruppo con cui hai mosso i primi passi, con cui sei cresciuto personalmente e artisticamente e con cui, in alcuni fortunati casi, hai conseguito successi planetari. Forse spesso è anche più difficile per i fan accettare una separazione e un cambiamento. Con i Soundgarden di "Down on the Upside" avevamo già assistito a una virata stilistica piuttosto netta, guidata da Cornell: il risultato furono la parziale insoddisfazione dei fan e dissidi fra il chitarrista Thayil e lo stesso Cornell, i quali si trovavano su fronti ideologici (musicalmente parlando) diametralmente opposti - il conservatore Thayil avrebbe voluto riportare il gruppo alle sonorità su cui aveva fondato la propria carriera, recuperando quell’indole elettrizzante e metallica, contrastata dalla caparbia smania progressista di Cornell, il quale, seguendo del resto la strada già battuta da Pearl Jam e Alice in Chains (e siamo pronti a giurare, l'avrebbero fatto pure i Nirvana), propendeva per un’evoluzione diciamo più “soft”, incentrata su composizioni più ricercate. Lo split altro non era che l’inevitabile conseguenza di due visioni così inconciliabili.

Era arrivato il momento che Cornell si liberasse di qualsiasi vincolo che ostacolasse la propria evoluzione autoriale e la propria vena creativa. Per farlo, si avvale della collaborazione dei due sconosciuti polistrumentisti provenienti dalla semisconosciuta band Eleven, Alain Johannes e Natasha Schneider, marito e moglie nella vita privata e colleghi nella vita professionale, i quali danno un contributo anche in fase di arrangiamento dei brani. Di alcuni, perlomeno. Il resto è praticamente tutto farina del suo sacco.

Bene, sappiamo anche come nella storia della musica molti celebri vocalist abbiano clamorosamente toppato alla prima uscita in solitario, o abbiano addirittura toppato per la propria carriera intera. O magari abbiano gettato la spugna ai primi round. O ancora peggio, che abbiano fatto amaramente rimpiangere i lavori con la propria band d’origine. Un conto è essere grandi interpreti, e un altro conto è essere anche grandi autori. Talvolta è capitato anche che produttori inadeguati abbiano tarpato potenziali carriere, Cornell se non altro, avendo optato per produrre interamente di mano sua il suo primo lavoro, questo rischio non lo corse.

Dopo questa premessa, lasciateci dire che tutti i dubbi riguardanti il suo debutto nelle vesti di cantante/autore/produttore vennero spazzati via da un ottimo album, autoriale, profondo, introspettivo, molto personale. In particolare, Jeff Buckley è stato realmente una grande influenza per la svolta artistica di Cornell, la sua ombra aleggia su gran parte del lavoro, e già dall’iniziale "Can’t Change Me" (estratto come singolo di presentazione) si può appurare come il cantautore californiano scomparso prematuramente sia diventato una importante fonte di ispirazione, per Cornell così come per molti novelli potenziali autori (un anno prima ne aveva dato prova anche Myles Kennedy, impegnato con l’esordio del proprio gruppo).

E tutto l’album si muove in questa direzione, seguendo le impronte lasciate da Buckley. Il Cornell che faceva librare la propria ugola su vette siderali, quello di "Jesus Christ Pose" o "Rusty Cage", quello dalla voce acuta e potente, è un lontano ricordo. Le sue corde vocali sono state depotenziate e scalfite a base di alcool e sigarette (e qualcos’altro in più, probabilmente), fino ad assumere un timbro caldo e raffinato, ottimamente modulato da quel mood malinconico e sommesso diventato la sua peculiarità.

Pochi giorni fa abbiamo recensito "Louder Than Love", disco della quasi consacrazione dei Soundgarden, e testamento delle prodezze vocali che Cornell era capace di sfoderare all’epoca. In dieci anni di cose ne cambiano tante, "Euphoria" è anni luce lontano da quanto prodotto all’epoca. Ed giusto che sia così. Dunque lasciamoci cullare sulle aggraziate note di "Preaching of the End of the World" (a parere del recensore, il pezzo più bello composto da Cornell), autentico capolavoro dell’album.

Dei restanti dieci brani presenti, c’è da segnalare particolarmente la vena soul e blues dell’intensa "When I’m Down", nonché la superba "Disappearing One" e il suggestivo pezzo acustico "Sweet Euphoria". Viene ripescata "Flutter Girl", pezzo scartato da "Superunknown" e qui rielaborato. In "Goodbye Wave" viene espressamente omaggiato il suo mentore recondito, Jeff Buckley, con tanto di dedica, mentre "Mission" subisce l’influenza di Layne Stanley e del suo ultimo lavoro con gli Alice In Chains.

All’epoca, manco a dirlo, "Euphoria Morning" spiazzò e scontentò parecchi fan soundgardeniani, per l’estrema differenza nella proposta musicale. A dispetto di una buona accoglienza da parte della critica, le vendite furono scarse. Pazienza, capitò anche a "Grace", prima di diventare quel masterpiece senza tempo che noi tutti conosciamo.

Comunque sia, forse su pressione dei propri agenti e/o discografici, Cornell si unì ai componenti dei Rage Against the Machine rimasti orfani del proprio cantante Zack De La Rocha, per dare vita agli Audioslave, per la gioia di tutti. Esperienza che durò il tempo di sette anni e tre album. Dopodichè, Cornell riprese la propria carriera solista, trovando pure il tempo di tornare insieme ai Soundgarden e pubblicare un album. Comunque sia, fra alti e bassi, flop colossali (quell’aborto di "Scream") e successi commerciali, nessun lavoro successivo raggiunge i livelli di "Euphoria". Se siete alla ricerca del Cornell più genuino e poetico, lo troverete senz’altro qui.

- Supergiovane

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