giovedì 26 settembre 2019

Beatles: "Abbey Road" (1969)

Il 26 settembre di cinquant'anni fa usciva "Abbey Road", ultimo capolavoro (e penultimo album pubblicato, ma reale canto del cigno) dei The Beatles.
Uno dei dischi pop rock più perfetti dal 1955 a oggi. Con una copertina iconica, una storia iconica, pezzi iconici.




Per qualche motivo che non so spiegarvi, trovo che analizzare l’inizio o la fine di qualcosa sia più semplice. Forse perché sono dei confini netti, c’è un prima e un dopo, mentre in mezzo rimane il mare magnum delle ipotesi e delle contraddizioni, delle possibilità e degli interrogativi. Ma sto divagando.

La mia esperienza con i Beatles ha avuto per molti anni una peculiare caratteristica: non aveva confini netti, ma era un ascolto circolare, tale per cui per anni non mi sono posto il problema di quale fosse l’ultimo album. Ascoltavo i brani, le cassette e poi i CD, in una modalità shuffle ante- litteram, dividendo in modo semplice gli album: fase giovanile dal 1963 al 1966 (di solito in primavera-autunno), maturità dal 1967 al 1969 (estate-inverno). A pensarci oggi, dato che ovviamente ancora lo faccio, ma in maniera più consapevole, questo mi ha preservato dall’immensa tristezza di considerare Abbey Road la conclusione definitiva della produzione dei Beatles.

Va detto subito che ritengo Abbey Road un capolavoro, nonostante l’acuto dramma che lo compenetra. Tutto inizia in modo splendido, a gennaio 1969, con il concerto sulla terrazza della sede della Apple, meraviglioso happening senza precedenti, che nasconde dietro le quinte un caos dilagante. La società Apple è vicina al fallimento e i Nostri sono divisi su tutto, a partire dalle più prosaiche questioni economiche e legali, fino alle più scontate divergenze artistiche. Con la morte di Epstein (1967) il gruppo non può più contare nel coordinamento logistico fornito dal manager, capace magicamente di traghettare il gruppo in porto durante le tempeste. E adesso, quest’ultima tempesta sembra proprio destinata a far affondare la nave.

A febbraio George Martin, nel panico, richiama i ragazzi all’ordine: vuole impedire in qualsiasi modo che questa morte entropica entri nella sua fase terminale e li chiama in studio di registrazione, per completare almeno il lato A di un nuovo album. Ma l’unico disciplinato e deciso a lavorare sodo sul progetto pare essere Paul; John deve lavorare ai suoi personali progetti con Yoko (pacifismo e nuove canzoni), Harrison sembra latitante e un povero Ringo messo in riga si limita a registrare "Octopus's Garden". Sono passati mesi e l’album procede stancamente per accrescimento, in maniera incoerente, senza una scaletta, perfino senza il titolo. A luglio la band si da un ultimatum e in un clima orrendo da catena di montaggio riescono a finire prima di agosto, mese in cui venne effettuato il mixaggio finale, gestito dal grande Alan Parsons.

La grande armonia vista nei precedenti Srg. Pepper e White Album è solo un ricordo lontano: il lavoro in studio che tanto amavano e forniva il collante essenziale al gruppo è diventato una pesante necessità , con ben poco di creativo. Tutto questo non è facile da evincere dall’ascolto dell’album, ma i problemi ci sono eccome.

Lo spettacolare medley del lato B ("You Never Give Me Your Money", "Sun King", "Mean Mr Mustard", "Polythene Pam", "She Came In Through the Bathroom Window", "Golden Slumbers", "Carry That Weight", "The End") è un raro esempio di geniale bravura in perfetto stile Beatles, anche se John la considerò da subito 'spazzatura', giusto per mettere le cose in chiaro.

Le altre canzoni, anche se molte sono frutto del recupero di vecchie incisioni, manifestano palesemente l’insanabile frattura McCartney-Lennon. "I Want You (She's So Heavy)" di John sembra rispondere con insolenza all’odiata "Oh! Darling" di Paul. Inoltre John si lamentò pesantemente dei soldi spesi (sic) per registrare "Maxwell's Silver Hammer". Perfino Ringo, che non era mai intervenuto in questo genere di problemi tra i due, si dichiarò sconcertato per le settimane “sprecate” per registrarla (curiosità: al minuto 1:21 sentite Paul ridere perché John si era abbassato i pantaloni in studio). "Come Together", con la sua carica irriverente è puro Lennon, come anche "Because", più pacata e zen, ispirata dalla moglie Yoko.

Il medley come dicevamo è una creatura di Paul, in cui vengono inseriti due pezzi di John composti in India, "Mean Mr. Mustard" e "Polythene Pam", che ci riportano a personaggi dell’epica beatlesiana trasfigurati dall’immaginario di Lennon. Conclude l’album la ghost track (accidentale, ma prima nella storia) "Her Majesty", che è anche la canzone più corta dei Beatles.

Quindi un capolavoro, dicevamo. Ebbene si, un capolavoro fatto di fatica e di contrasti, che non scorre liscio come il già citato Srg. Pepper. Abbey Road può essere preso brano per brano, singolarmente, come hanno fatto molti artisti eseguendo splendide cover di "Come Together" e "Something". Se lo ascoltiamo tutto insieme, dritto alla meta, come ci suggeriscono i Fab Four con la loro camminata in copertina, ci renderemo conto che è di fatto una summa dell’opera dei Beatles. Ci sono i contrasti e la creatività dei singoli che cercano di emergere, ma c’è anche il messaggio profondo di unità della band, nel tentativo di riunire l’ego dell’artista con le istanze creative del gruppo.

Concludo quindi non con le parole di The End, come qualcuno si sarebbe aspettato, bensì con la frase con cui John Lennon ha chiuso il Rooftop Concert: "Vorrei ringraziare a nome del gruppo e di noi stessi e spero che abbiamo superato l'audizione"

- Agente Smith

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