domenica 29 settembre 2019

Alice in Chains: "Black gives way to blue" (2009)

Il 29 settembre del 2009 vede la luce uno dei album più discussi del nuovo millennio, "Black Gives Way to Blue", il primo lavoro della seconda vita degli Alice in Chains.



(il disco completo si può ascoltare qui: https://tinyurl.com/yybhjbxa)



Il comeback degli Alice in Chains, oltre alla forte ondata di entusiasmo e curiosità che raccolse attorno a sé, suscito anche molte perplessità che sfociarono nel malcontento da parte dei fan più intransigenti: per loro gli Alice in Chains erano già morti nella seconda metà degli anni ’90, e seppelliti definitivamente il 5 aprile del 2002, data in cui lo storico cantante Layne Stanley morì per un’overdose di eroina e cocaina nella sua casa di Seattle, casa da cui non si muoveva più da molti anni, a causa del vortice di depressione e abuso di droghe e farmaci in cui era caduto nel ’96 senza riuscire più a risollevarsi.

Se c’è una cosa che abbiamo capito dallo zoccolo duro dei rockettari cresciuti negli anni ’90 è che la loro indole è impulsiva, inflessibile, e maledettamente nostalgica. Aggiungiamoci pure il fatto che Layne Stanley fu veramente una delle grande icone del periodo grunge, un cantante unico dal timbro inconfondibile, che ha segnato un’intera generazione e quella successiva relativa all’alternative rock / metal degli anni 2K (chiedere ad esempio a Sully Erna dei Godsmack…).

Avete mai provato a immaginare cosa sarebbero i Nirvana senza Kurt Cobain? Naaa, non esiste proprio. O i Soundgarden senza Chris Cornell? Ipotesi che non riesco nemmeno a prendere in considerazione. E i Pearl Jam senza Vedder? Improponibile. Gli Stone Temple Pilots senza Scott Weiland? Ma per piacere…che poi ci hanno e ci stanno provando (con Chester Bennington sappiamo come è finita), ma, con tutto il rispetto per un valido professionista come Jeff Gutt, il paragone non regge minimamente. O anche, spostandoci lievemente da Seattle, gli Smashing Pumpkins senza Billy Corgan come li vedreste? No, ragazzi, non scherziamo!

Capirete perfettamente quindi per quale motivo il legittimo scetticismo che poteva aleggiare attorno a una delle reunion più chiacchierate della storia sfociò nel boicottaggio a priori. Già qualche anno prima, Jerry Cantrell decise di rimettere in piedi la vecchia band, nel 2005. Lo scopo iniziale era quello di raccogliere fondi a favore della Thailandia e delle vittime dello tsunami. Al posto di Stanley si avvicendavano vari cantanti, fra cui Maynard dei Tool e Wes Scantlin dei Puddle of Mudd, fra i più noti. Fra i meno noti invece, figurò un certo William DuVall, cantante con alle spalle una lunghissima gavetta, vecchia conoscenza di Cantrell, il quale portò in tour la sua ultima band, i Comes With The Fall, per promuovere il suo secondo album solista ("Degradation Trip").

Fu il momento catartico. Non passò molto tempo che Alice in Chains ripresero l’attività a pieno regime, con DuVall come nuovo cantante ufficiale. Il tutto senza grossi proclami o chissà quali trionfalismi, solamente l’annuncio che il gruppo era tornato in carreggiata e stava lavorando a del nuovo materiale. C’era da indignarsi? Assolutamente no. A differenza di un gruppo come i Nirvana, visceralmente Cobain-centrico, gli Alice in Chains li aveva messi su Cantrell assieme a Staley, e Cantrell ne è molto spesso stato l’autore dominante nell’alchimia del gruppo, trovando in Staley l’interprete perfetto per plasmare le composizioni con la propria modulazione vocale e con la propria decadente prosa prostrata e struggente sotto l’aspetto testuale. Cantrell aveva tutto il diritto di rimettere in carreggiata la sua vecchia band. Con buona pace dei detrattori, degli hater, e dei mujaheddin al soldo dell’integralismo grunge.

Dopo cinque mesi di lavori, il 18 marzo, giorno del quarantatreesimo compleanno di Cantrell, vengono terminati i lavori di scrittura di "Black Gives Way to Blue", primo parto degli Alice in Chains 2.0. Il singolo di presentazione del nuovo album, "A Looking in a View", accompagnato da un ottimo videoclip davvero angosciante, spazza via ogni dubbio riguardo il presunto opportunismo di Cantrell e del nuovo corso della band: oltre sette minuti conditi da chitarre distorte, mood plumbeo e opprimente, ritmiche dal gusto sludge e riff decisamente pesanti, qua siamo quasi al confine con il metal. Basti pensare alle influenze che la band di Seattle ha avuto anche su gruppi estremi dell’epoca, in particolare su un lavoro come "World Demise" degli Obituary: mettendo a confronto la struttura ritmica di un pezzo come "Final Thought" con "A Looking in a View", le differenze non sono poi tante. Vocalizzi a parte.

A proposito di voce, la novità è adesso che Cantrell dietro al microfono partecipa in modo più attivo rispetto al periodo con Staley, creando con DuVall una sovrapposizione vocale morbosa decisamente coinvolgente. L’operazione di riesumazione del grunge novantiano è riuscita con successo. Praticamente, Cantrell ha provveduto a un reboot del gruppo, riprendendo in larga parte quelle sonorità squisitamente primordiali dei primi due album, in particolare "Dirt" (uscito curiosamente lo stesso giorno di settembre 17 anni prima), senza però resettare quell’evoluzione stilistica espressa in "Jar of Flies" e nell’album eponimo, e che Staley stesso stava sviluppando ulteriormente con il suo progetto parallelo, i Mad Season (autori dell’ottimo "Above").

“Hope, a new beginning. Time, to start living. Just like just before we died. There’s no going back to the dreams we started from”, così recitano i primi versi dell’opener "All Secrets Know", pezzo avvolgente dalla lentezza semipachidermica e dall’incedere ipnotico. Sembra quasi una formula esoterica partorita per resuscitare gli Alice in Chains che furono.

Indietro ai primi novanta e al primo lavoro "Facelift" ci riporta la successiva "Check My Brain", pezzo diretto e facile presa, perfettamente in linea con quanto da loro prodotto durante gli esordi.

Il connubio delle voci di DuVall e Cantrell si conferma assolutamente vincente. Il dualismo fra i due cantanti si può gustare su due pezzi in particolare, "Last of My Kind" e "Your Decision". Il primo, è sorretto da un riff portante elasticizzato prodotto con quell’effetto wah-wah della pedaliera e vede Duvall protagonista di una performance convincente impreziosita da un refrain azzeccatissimo. Nonostante le evidenti differenze a livello vocale fra Staley e DuVall, il gruppo è riuscito a far quadrare le linee armoniche con l’inserimento del nuovo arrivato, senza alterare le proprie sonorità. "Your Decision", che venne scelto come terzo singolo, è una grungeballad dalle sfumature inevitabilmente malinconiche e sofferte, dove a sto giro è Cantrell a prendere in mano le redini, sia alla voce che come protagonista di uno di quegli assoli acidi e struggenti come non si sentivano più da anni. Stilisticamente, siamo anche abbastanza vicini ai suoi lavori solisti. Inevitabilmente, aggiungo.

La latente, malinconica sofferenza del gruppo e di Cantrell trova sfogo pure nella semiacustica "When the Sun Rose Again", canzone che subisce quel piglio southern che aveva contraddistinto certe loro composizioni (anche i Pantera dell’album "The Great Southern Trendkill" dovrebbero ricordarsene bene). La doomeggiante "Acid Bubble" di sabbathiana memoria è il pezzo più prolisso e cadenzato dell’album, non immediata come gli altri brani del piatto ma senz’altro meritevole di figurare all’interno dell’album. I ritmi tornano ad alzarsi con la seguente "Lesson Learned", altro pezzo forte del lotto, che avrebbe fatto una gran bella figura pure su "Dirt" o "Facelift".

"Take Her Out" e la lenta "Private Hell" sono altre due songs che trasudano grunge rudimentale da ogni poro, quest’ultima particolarmente intrigante per le linee armoniche adottate e per uno degli assoli più belli dell’album.

In chiusura, viene posta strategicamente la title track, "Black Gives Way to Blue": è il pezzo più 'sentito' che Cantrell abbia mai composto, dedicato all’amico ed ex socio Layne Staley. Una ballad struggente a livelli siderali, in cui la chitarra e la voce di Cantrell vengono accompagnati dalle note di pianoforte suonato per l’occasione da Elton John, dall’indole molto triste, è comunque una canzone che vuole imprimere sentimenti speranzosi e positivi, nel metaforico passaggio cromatico dal nero profondo a un colore blu.

Senza doversi necessariamente reinventare, gli Alice in Chains tirano fuori dal cilindro un ottimo lavoro, non propriamente immediato né tantomeno commerciale o radiofonico (e ci mancherebbe altro…), che va giudicato a prescindere dal contesto storico-musicale in cui è stato concepito, liberi da pregiudizi e ideologie. I due seguenti lavori, "The Devil Put Dinosaurs Here" e "Rainier Fog", per quanto positivi essi siano, resteranno varie spanne sotto questo insperato comeback.

Un consiglio: fottetevene di chi dice che senza Staley gli Alice in Chains non hanno ragione di esistere, questo fu uno dei prodotti in assoluto più pregiati del 2009. Qui è tutto da C'era una volta il rock, dove gli anni novanta vivono ancora!

- Supergiovane

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