giovedì 12 settembre 2019

Aerosmith: "Pump" (1989)

Il 12 settembre di trent'anni fa usciva anche "Pump", che proseguiva il grande ritorno sulle scene degli Aerosmith, avvenuto due anni prima con "Permanent Vacation", sia in termini di successo che di critica. 
Proseguiva altresì l'associazione del gruppo al produttore canadese Bruce Fairbarn e agli autori Desmond Child e Jim Vallance, che sarebbe proseguita anche sul successivo "Get a grip". Brani come "Janie's got a gun" e "Love in an elevator" si inserirono di prepotenza nel canone dei cattivi ragazzi di Boston.

(disco completo qui: https://tinyurl.com/y3qc8dat)

12 settembre del 1989, è la data di uscita del celebre "Pump", per mano di uno dei più note e longevi gruppi rock a stelle e strisce, stiamo parlando naturalmente degli Aerosmith.

Dopo aver toccato il fondo, visto il baratro, e rischiato l’estrema unzione, la band bostoniana risorse inaspettatamente due anni prima con "Permanent Vacation", album che segnò il loro più grande successo commerciale, forte di una rivisitazione del loro modus operandi compositivo in linea con i tempi attuali, ovviamente porgendo un occhio di riguardo a una struttura stilistica studiata a tavolino per esplodere in vetta alle classifiche di tutto il mondo.

Così, come per "Permanent Vacation", si affidano al guru Bruce Fairbairn per la produzione del nuovo album, e anche stavolta collaborano con i due re mida delle hit parade Desmond Child e Jim Vallance per la stesura delle canzoni, due ghost writer di grosso calibro che oltre al gruppo di Steven Tyler & co. hanno fatto la fortuna anche dei colleghi Bon Jovi. Parte del loro stratosferico successo la devono anche a questi due signori.

L’impronta dei brani non può che essere smaccatamente radio friendly, festaiola e scanzonata, giocata sulla consueta alternanza fra sfrenati rock’n’roll blueseggianti (vedi l’opener "Young Lust"), mid tempo nei consueti quattro quarti dal sapore boogie ("F.I.N.E."), e le immancabili ballatone.

Gli Aerosmith impostano lo schema del disco seguendo queste direttive, colorando i pezzi con squisiti inserti di sax, trombe e ottoni (e non manca l’ormai onnipresente armonica a bocca di Tyler) e dosando l’ausilio delle tastiere al minimo sindacale.

I benefici di questa formula appaiono evidenti nel primo singolo, "Love in an Elevator" (composta esclusivamente da Tyler e Perry), pezzo estremamente suadente e paraculo, progettato per spopolare nelle arene e coinvolgere il proprio pubblico grazie a un massiccio uso dei cori. Oh-oh OoOo Oh-oh OoOo Oh Yeah!

Ma una figura migliore la fa "Janie’s Got a Gun", anomala power ballad che possiede una carica emotiva davvero profonda, contraddistinta dal testo insolitamente teso e drammatico e dall’arrangiamento molto particolare (per gli standard del gruppo), che racconta una storia di abusi e vendetta. Anch’essa estratta come singolo, ne fu girato un videoclip che ne ricalca le dinamiche narrative, diretto da un David Fincher alle prime armi.

Ed eccoci al terzo supersingolo estratto, "What It Takes": afferratevi gli slip, o boxer, o perizoma (o qualunque cosa usiate come biancheria intima), e preparatevi ad eseguire la manovra di smutandamento. Vi aspettano cinque minuti intensi, in compagnia di una ballatona che affonda le proprie radici nella profonda tradizione country e blues americana, ammodernata per conferire al pezzo quell’irresistibile appeal radio friendly. Forse non colpisce così nel profondo nel cuore dei rocker teneroni come fece "Angel" due anni prima, ma resta una delle ballad immortali degli Aerosmith, sopravvissuta pure agli occhioni blu lucidi di Liv Tyler e mai uscita dal giro delle loro setlist live. La canzone è seguita da un outro strumentalefolkeggiante dal gusto squisitamente irlandese. Non un caso isolato, nel disco sono stati seminati qua e là brevi intermezzi strumentali folkloristici, è il caso anche di "The Other Side", altro pezzo forte del piatto, canzone allegra e ruffiana, o come nella portentosa "Voodoo Medicine Man" (in cui l’intro si rifà ai feed tribaleggianti dei nativi americani), a cui conferiamo il titolo di pezzo più sottovalutato dell’album.

Il resto, francamente, è dimenticabile, partendo da un pezzo scontato, trito e ritrito come "Monkey On My Back" (su cui però il gruppo puntò abbastanza, proponendola spesso al proprio pubblico), passando per la piatta "Don’t Get Mad, Get Even" e chiudendo con la banalissima "My Girl", 100% pure filler.

Non un album perfetto quindi, ma molto buono, buono abbastanza per battere in quanto a vendite pure il suo predecessore, diventare uno degli apici della loro carriera e consacrare definitivamente gli Aerosmith nell’esclusivo club dei grandi della storia del rock.

- Supergiovane

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