mercoledì 21 agosto 2019

King Crimson: "In the court of the crimson king" (1969)

Cinquant’anni fa, la faccia urlante dell’uomo schizoide del ventunesimo secolo veniva esposta sugli scaffali dei negozi di musica del Regno Unito, un’acidissima copertina che diventerà un’icona carbonara dei rocker più pretenziosi. Tipo i due che vi scrivono ora, grandi appassionati di musica prog (specie, DUH, Prog Fox) e grandissime, pretenziosissime fighette (quello specialmente io, Spartaco Ughi).



“21st century schizoid man” apre uno dei dischi più venerati della storia del rock: “In the court of the Crimson King”, album d’esordio dei King Crimson di Greg Lake, Ian McDonald, Michale Giles e, ovviamente, Robert Fripp. I King Crimson, oggi, non solo esistono ancora (in una formazione ampiamente rimaneggiata, ma del resto già nel ‘71 l’unico superstite della formazione originale era il chitarrista occhialuto), ma portano avanti con altrettanta veemenza la loro idea radicale di musica rock “fatta con la testa e non con i piedi”, come il leader tenne a precisare già in giovane età. La band sta calcando in questi mesi i palchi di tutto il mondo per ricordarci che sono ancora preda della lucida follia dell’art rock, con una formazione di sette elementi di cui 3 batteristi, tutti vestiti da damerini e senza alcun orpello di scena. Non lo trovate anche voi decisamente arrogante, molto radicale, in parte buffo e del tutto geniale? https://www.youtube.com/watch?v=3028oDEKZo4




Da sempre piuttosto anticonvenzionale, la carriera dei King Crimson vanta alcune peculiarità uniche nella storia dei giganti del rock. Per dirne una, il loro concerto più vasto fu anche il primo, quando fecero da opening per i Rolling Stones all’indomani della morte di Brian Jones. Per via di quell’esperienza, pare che Fripp rifiuti di suonare di fronte a platee troppo numerose, per via della “diluizione” dell’impatto della musica. Se pensiamo agli immensi marchingegni e alle folle oceaniche coinvolte nei concerti dei Floyd, o degli U2, o anche dei Radiohead, l’idea che una rockband dia valore all’intimità di un concerto, anche quando sul palco ci sono tre batterie e due chitarre distorte, dà da pensare. Le tendenze anticonvenzionali della band hanno probabilmente contribuito alla percezione dei Crims durante tutti questi decenni. Molto più di una band di culto, ma certamente lontani dai riflettori più scottanti (e, anche letteralmente, dai palcoscenici più grandi), Fripp e soci hanno mantenuto una freschezza, e di conseguenza un’influenza sulle generazioni seguenti, di cui nessuno dei loro competitors nei ‘70 ha davvero potuto fregiarsi. E proprio perchè non stiamo parlando di band da decine o centinaia di milioni di album venduti, ci teniamo a mettere insieme una piccola retrospettiva sul loro lavoro d’esordio, da molti (ma non necessariamente da chi vi scrive) considerato il loro più grande capolavoro. Buona Lettura!

SU: Per cominciare, la vexata questio: si tratta davvero del primo disco prog? Qui vorrei la tua opinione poichè ne sai più di me, del genere.
PF: Per quel che valgono le definizioni, diciamo che non si può considerare il primo disco prog: il primo disco prog è probabilmente il debutto dei Procol Harum (preceduto dal singolo “A whiter shade of pale”, probabilmente la prima canzone prog; canzone che compare sull’LP americano ma non sulla versione inglese, misteri delle discografie degli anni ‘60). Inoltre dischi che si possono considerare prog o proto-prog sono quelli dei Nice (la prima formazione di Keith Emerson, e la prima a usare il formato tastiera-basso-batteria senza chitarra), quelli dei Moody Blues; mentre hanno elementi prog ma non sono compiutamente prog quelli di Pink Floyd, Traffic, Family e Jethro Tull pre-Crimson.

SU: Premesso che “In the court of the crimson king” (d’ora in avanti “In the court”) vada senz’altro ricordato, è più importante notare la sua importanza come “primo esempio di prog rock”, o la sua bellezza? Cioè, è più bello o più importante? 
PG: "In the court" è sostanzialmente per il progressive rock la stessa cosa che “Led Zeppelin I” è per l’hard rock, che non è il primo disco di hard rock ma è quello che in un certo senso canonizza compiutamente il genere per la prima volta. Nulla sarà più uguale per quei musicisti che vogliono fare il cosiddetto art rock dopo "In the court". E nessuno di quelli che avevano iniziato a farlo (vedasi elenco di cui sopra) potrà esimersi dal farci i conti. Le conseguenze sono immediate: i Procol Harum pubblicano quello che è probabilmente il loro capolavoro, “Home”, ispirandosi ai KC. I Jethro Tull virano completamente verso le influenze classiche. I Pink Floyd incidono “Atom Heart Mother”. Tra il primo e il secondo disco dei Genesis e dei Van der Graaf Generator, che vede entrambi i gruppi maturati e progressive, c’è "In the court". Nascono i Gentle Giant, il cui primo disco ricalca pedissequamente nella struttura il primo disco dei KC. Emerson scioglie i Nice e forma Emerson Lake & Palmer per rubare Lake ai KC. Poi certamente c’è la bellezza intrinseca dell’album. È importante ma è importante anche perché è un disco bellissimo. La sua bellezza avrebbe potuto esistere anche con altri arrangiamenti e sarebbe stato un disco bellissimo. Ma con quegli arrangiamenti, diventa il primo e più importante capolavoro del progressive rock.

SU: Io la storia degli ELP l’ho sentita diversamente da più parti, specialmente per come la racconta Lake: pare che se ne andò esausto per l’atteggiamento accentratore (e poco incline al compromesso) di Fripp, ed Emerson colse l’occasione per costruire una super-band che potesse cavalcare il successo del prog. Non che questo cambi molto sul ruolo della band nella storia della musica, ma ci dice qualcosa di più su quel tiranno “illuminato” di Bob Fripp. E parlando di leader, come spiegare il fatto che Ian McDonald è il principale songwriter su questo disco, ma sparisca praticamente dai radar dopo essere stato di fatto messo in fuorigioco ed espulso dalla band da quel satanasso di Fripp? Lo stesso discorso si può fare per Michael Giles, batterista eccezionale poi essenzialmente sparito.
PF: Di persone che hanno dato contributi straordinari magari nello spazio di poco tempo per poi sparire ce ne sono molte. Tralasciamo quelli che sono spariti per la morte, ma molti sono spariti per motivi personali, magari per l’incapacità di lavorare con altri, per poca determinazione o anche solo per poca voglia di crescere e proseguire nella sperimentazione. Ian McDonald e Mike Giles, dopo essere stati i primi a litigare con il dittatoriale Fripp, lasciano insieme la band e formano un duo che incide un disco bellissimo, “McDonald & Giles”, che è di fatto superiore al secondo album dei Crimson (a cui pure collaborarono come autori e sessionmen). Se avessero posseduto loro il nome King Crimson, probabilmente sarebbe cambiata di molto la parabola artistica di McDonald, di Giles e anche di Fripp. Di McDonald va comunque ricordato che fu produttore e che nel 1974 tornò nei Crimson per contribuire in maniera favolosa su quello che per il mio modesto parere è il secondo migliore album del gruppo, “Red” (il primo, se qualcuno se lo chiedesse, è “In the court”). McDonlad fu anche uno dei fondatori dei Foreigner, coi quali restò fino al 1979. Certo non ebbe mai più un ruolo così significativo in un disco. Mike Giles invece divenne ‘solo’ un sessionman di lusso. Pare che non abbia più voluto impegnarsi con un gruppo. Certamente avrebbe potuto essere il drummer di uno qualsiasi dei grandi gruppi prog di quegli anni.
SU: Sulle diverse carriere di Fripp, McDonald e Giles non sono sicurissimo d’essere d’accordo, Fripp finì in pochi anni a collaborare con Eno e da lì finì su “Heroes”, conobbe Levin e Belew e potè avere la fase 3 dei Crims, che nemmeno doveva chiamarsi King Crimson all’inizio. Difficile parlare degli altri due ma, dovendo scommettere, i miei soldi sarebbero sempre su uno come Fripp. E sì, McDonald non è completamente scomparso, ma ha avuto una carriera non all’altezza di quello che ha firmato (spesso in solitaria!) su questo disco.

SU: Ricordi la prima volta che l’hai ascoltato? Che effetto ti ha lasciato? Fu amore a primo ascolto o ha richiesto tempo e pazienza?
PF: Amore a primo ascolto, direi. Non è stato il primo disco prog che ho ascoltato, ma sarà stato sicuramente fra i primi dieci, ed ha avuto un impatto fenomenale sulla mia cultura musicale.
SU:Te lo chiedo perchè io coi King Crimson invece ho avuto un rapporto inizialmente conflittuale. La prima volta che ascoltai "In the court" lo trovai noioso, noiosissimo, e sputai sopra alla band per mesi. Fu solo dopo aver ascoltato “Red” e “Islands” che potei tornare indietro e godermi questo, che per me nella lista dei migliori album dei King Crimson non è nemmeno sul podio (prima ci sono i due succitati, oltre che “Discipline”). Ma questo soltanto perchè i Crims hanno prodotto più album straordinari di quelli che possono stare su un podio.

SU: I testi di Peter Sinfield hanno anch’essi aperto nuove strade per il rock e fanno parte della legacy della band come alfieri di ciò che i critici seriosi chiamano “art rock”. Sinfield scriverà i testi dei loro primi quattro album, e contribuirà alla definizione dell’immaginario fantasy/onirico spesso associato al prog.
PF: Assolutamente. Le fantasie liriche di Greg Lake (che spesso lavorò con Sinfield), di Jon Anderson degli Yes e di Ian Anderson dei Jethro Tull, di Peter Hammill dei Van der Graaf Generator, sono tutte fortemente debitrici della scrittura di Sinfield su "In the court". Va detto che anche in questo un merito va riconosciuto al poeta Keith Reid che aveva scritto i testi dei Procol Harum in una vena non troppo dissimile, anche se Sinfield alzò la posta in gioco decisamente e poté influenzare molte più persone grazie all’incredibile successo artistico dell’album.
SU: Di Sinfield va anche detto che contribuì ai lightshow dei primi KC, nell’epoca immediatamente successiva alla loro introduzione da parte dei Pink Floyd (anche se Patty Pravo sostiene che li abbiano fatti prima al Piper, lo dico perchè lo ho sentito in un’intervista a Patty Pravo in cui raccontava di aver litigato con Waters sull’argomento, e se c’è una cosa che grida forte-forte “tardi anni ‘60”, è l’idea di una giovanissima Patty che smadonna contro Roger Waters sulla paternità di un “dettaglio” del genere). I Pink Floyd post-”A Saucerful of Secrets” virarono verso lidi più “easy listening”, in senso lato, e se quel gigantesco vuoto a forma di Syd Barret venne riempito dai Crims, probabilmente è anche merito di Sinfield. Oltretutto, i Floyd sono forse l’unica band che non ha un debito lirico nei confronti di Sinfield, visto il carattere ossessivo di Waters e il suo legame con le sue fisime esistenziali. Forse sono proprio loro l’unica band prog che sfugge ad un’influenza “diretta” da parte di Fripp, anche se, come hai giustamente detto, “Atom Heart Mother” resta come minimo una risposta al capolavoro di cui parliamo qui.

"21st Century Schizoid Man" apre l'album con un capolavoro dentro il capolavoro, figlio della stessa stagione turbolenta e creativa che da vita all'inno americano devastato da bombe al napalm da Jimi Hendrix sul palco di Woodstock. La ritmica folle costruita da Mike Giles racchiude in sé già tutto quello che saranno infinite formazioni di progressive, zeuhl, math rock, prog metal e djent come Magma, Mastodon, Meshuggah, Van der Graaf Generator.

La dolcezza del flauto di Ian McDonald sui grappoli di note acustiche di Robert Fripp in "I talk to the wind" segnano la ballata progressive e illuminano Robert Wyatt dei Soft Machine e Richard Sinclair dei Caravan, segnando anche il futuro della Scuola progressive di Canterbury.

"Epitaph", col mellotron di Ian McDonald ancora in evidenza, "Moonchild", con la sua lunghissima coda minimalista e ambient, e "In the court of the crimson king", il capolavoro finale dell'album, gettano le basi dell'epos progressive, oscuro e visionario nei testi drammatici, spalancando intere carriere a Camel, Genesis, Gentle Giant, influenzando "Thick as a Brick" dei Jethro Tull. È in particolar modo la composizione finale dell'album, quella che gli da il titolo, a colpire per il suo incrocio di chitarre acustiche gettate a capofitto per le scale del palazzo del Re Cremisi (popolato da flautisti di estrazione classica e misteriosi cortigiani che si esibiscono in altisonanti cori) con la batteria regolare e tecnicamente impeccabile di Mike Giles (uno stile altro sia dai Keith Moon, dai Mitch Mitchell, dai Ginger Baker e dai John Bonham). Su tutto, la voce di una delle più limpide corde vocali del rock del secondo Novecento, il bassista Greg Lake.

"In the court of the crimson king" è il disco che rende il progressive romantico e sinfonico un genere a sé stante: è rivoluzionario negli ambiziosi testi artistoidi e nella musica che unisce chitarra post-hendrixiana, strumenti a fiato e tastiere in un unicuum straordinario finora solo vagheggiato dai contemporanei e dagli antesignani del genere. "In the court" diventa così uno dei più grandi rami tesi dagli anni sessanta al rock degli anni settanta e oltre. - Prog Fox & Spartaco Ughi

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