giovedì 29 agosto 2019

Giant: "Last of the runaways" (1989)

Oggi si festeggia il trentennale di "Last of the Runaways", un altro dei grandi dischi di hard rock anni ottanta di quell'era famigerata per i capelli cotonati e i ritornelli indimenticabili. Nonostante la brutta fama del genere, quando possiamo difendere un grande gruppo e un grande album noi lo facciamo sempre volentieri.



Il disco completo --> https://tinyurl.com/y58fv5hk




29 Agosto del 1989, prepariamoci a rituffarci indietro di 30 anni nei patinati eighties per l’esordio dei Giant, l’acclamato "Last of the Runaways", eccelso album uscito quasi fuori tempo massimo in un’epoca in cui l’hard rock ha spopolato ma che ormai non aveva più molto da dire. 

A dispetto di molte altre storie nate nell’infuocato epicentro losangelino in cui si infiammò la scena rock che contraddistinse quel periodo, la storia dei Giant comincia a Nashville, città nota più che altro per la propria realtà country e folk. Inoltre, i Giant non si presentano come un manipolo di sregolati nichilisti rockstar trasandati dediti al consumo e all’abuso di alcool, droghe e groupies, il nucleo dei Giant venne formato da un gruppo di musicisti molto dotati, ormai tutti trentenni (il tastierista Alan Pasqua andava per i quaranta) e con alle spalle una carriera da eterni turnisti. Leader del gruppo, il cantante e chitarrista (ottimo su entrambi i fronti) Dann Huff, già session man di Madonna, oltre che dei Whitesnake pochi anni prima, con cui intraprese il tour di “1987” e incise la versione di "Here I Go Again" tagliata per i passaggi radiofonici. Fondamentale anche l’apporto alle tastiere di Alan Pasqua, co-fondatore del gruppo, originario del New Jersey e anche lui in possesso di un curriculum di tutto rispetto (Bob Dylan, Sammy Hagar, Carlos Santana sono solo alcuni dei nomi con cui ha lavorato). A completare la formazione, Huff chiamò il fratello David alla batteria oltre a Mike Brignardello al basso. Curiosamente, questi ultimi due, nonostante siano sempre stati marginali per quel che concerne le redini del songwriting, sono gli unici superstiti della formazione originale.

"Last of the Runaways" fa leva su un hard rock estremamente raffinato miscelato con l’AOR più maturo, ispirato da attitudine class metal - che per chi non lo sapesse, è un hard rock sofisticato e pregiato in contrapposizione al glam o street rock, in stile Dokken per intenderci, i critici a loro tempo si sbizzarrirono partorendo nominativi per ogni influenza e sottogenere… diamine, se non ci attenessimo anche noi queste definizioni, ci sembrerebbe di fare uno sgarro a questi eruditi addetti ai lavori che ci hanno preceduto molti anni or sono!

L'album è ottimamente bilanciato fra fluidità compositiva e perizia tecnica dei componenti, in particolare da parte di Dann Huff, autore in grado di offrire un’ampia gamma di soluzioni compositive, esecutore di una serie di svariati assoli fantastici oltre a riff corposi che fanno da traino per una sezione ritmica elegante e solida, nonché interprete di una prestazione vocale sopra le righe, grazie al suo caldo timbro vocale valorizzato dalla sua frizzante verve canora. Huff spartisce il merito della buona riuscita dell’album con Pasqua, ottimo accompagnatore mai troppo invasivo o inopportuno nelle sue inserzioni tastieristiche.

Cristallina e impeccabile la produzione, essendo uscito a fine degli anni ottanta, l’album si presenta privo di quelle deformità sonore che hanno caratterizzato molte produzioni dell’epoca, vedi il suono ottuso delle chitarre, la pomposità delle tastiere, il riverbero dei suoni della batteria (fra cui il famoso rullante a colpo di frusta). L’album, oltre a venire ottimamente accolto dalla critica, fu anche un buon successo commerciale grazie anche al supersingolo "I’ll See You in My Dreams" (scritta da Pasqua assieme al noto compositore Mark Spiro), una di quelle indimenticabili ballatone strappamutande tipiche degli anni ’80.

Ma a far presa sull’album sono anche la portentosa opener "I’m a Believer", la spassosissima "No Way Out" (molto vicina a un certo modo di interpretare il rock da parte di David Lee Roth e dei Van Halen), il trascinante groove di "Hold Back to the Night", dotata di un refrain memorabile dal sapore squisitamente AOR, la lunga e cadenzata "I Can’t Get Close Enough" (un pregiato mid-tempo dalla vena blues) che fa il paio con Stranger To Me, senza tralasciare l’altra ballad "Love Welcome Home".

Cinquacinque minuti complessivi distribuiti su undici pezzi, un album perfetto senza filler o cadute di stile, perfetto per gli amanti di un rock orecchiabile, longevo e di gran classe, farcito di assoli di eccelsa fattura. Il gruppo tre anni più tardi diede alla luce il secondogenito "Time to Burn", eccellente lavoro all’altezza del debutto (vi ricordate dell’immortale megahit "Stay"?), ormai però siamo in piena esplosione grunge, le vendite furono deludenti, l’etichetta li scaricò e così dovettero abdicare. Non furono i primi e nemmeno gli ultimi che si vedero costretti loro malgrado a venire penalizzati dalle ciniche dinamiche di mercato che governavano all’epoca, anche Kip Winger e la sua band ne sanno qualcosa, fra i tanti…

I Giant sparirono dai radar almeno temporaneamente, prima di riformarsi a inizio 2000 (senza Pasqua) con un discreto terzo album, un quarto album non memorabile datato 2010 (stavolta perdendo anche Dann Huff) e qualche sporadica esibizione live dal 1992 a oggi. Ciò nonostante, in virtù di Last of the Runaway, sono considerati come band di culto fra gli appassionati intenditori del rock ottantiano.

- Supergiovane

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