mercoledì 28 agosto 2019

Chicago: "Chicago (II)" (1969)

Nel gennaio di cinquant'anni fa, i jazz rocker americani Chicago incidono il loro secondo album, il doppio LP "Chicago", meglio noto come "Chicago II".
Jazz-rock melodico che si lascia alle spalle gli elementi di avanguardia del disco precedente, vede il gruppo lavorare bene sull'eclettismo cannibale (le giustapposizioni fra roots rock e jazz in "Movin' in", i tempi dispari in "Poem for the People", il virtuosismo fiatistico in "It better end soon").





Dopo l'ottimo disco di esordio, i Chicago, uno dei primi gruppi del nuovo genere chiamato jazz rock, si apprestano a incidere il successore di quell'album, che si chiamerà semplicemente "Chicago" e diverrà noto come "Chicago II" in seguito. Come per il debutto, i sette ragazzi dell'Illinois e il loro fondamentale produttore James William Guercio decidono di realizzare un doppio LP che cerca di tenere insieme ogni possibile genere musicale, dal pop alla musica classica. E i risultati sono ancora una volte molto, molto buoni.

Il gruppo consiste di un quartetto rock e di una sezione fiati di tre elementi: il cantante-chitarrista-compositore Terry Kath, il cantante-bassista Peter Cetera, il cantante-pianista-compositore Robert Lamm, il batterista Danny Seraphine; il trombonista-compositore James Pankow, il sassofonista-flautista Walt Parazaider e il trombettista Lee Loughnane.

L'ora e mezza e le quattro facciate dell'album si possono distinguere nettamente fra loro. Il lato A e il lato D sono chiaramente i due migliori, e contengono alcune delle cose più belle mai scritte dai Chicago in cinquant'anni di carriera. Il lato A si apre con il capolavoro "Movin' in", un rock intenso la cui parte centrale è dominata dagli assoli jazz rock dei fiati, da far venire la pelle d'oca in particolare quello di sax del fantastico Walt Parazaider. "The Road" è un soul rock jazzato tra lo stile di Laura Nyro e quello dei Blood Sweat & Tears; la meditabonda "Poem for the People", dalla complessa struttura ritmica, è decorata da un sottile ma fondamentale lavoro del chitarrista Terry Kath; "In the country" è un rock melodico e marziale che vede Kath e il bassista Peter Cetera duettare in uno dei ritornelli più azzeccati e imprevedibili del disco.

Il lato B è dominato dalla suite in sette movimenti del trombonista James Pankow "Ballet for a Girl in Buchannon", troppo altalenante come riuscita, probabilmente perché troppo lunga. A temi interessanti (il solo di Kath in "Make me smile", primo movimento, "West Virginia Fantasies", il quarto) ne fanno seguito altri abbastanza blandi ("Anxiety's Moment", terzo movimento, "Now more than ever", il settimo e conclusivo), e in linea di massima questa facciata chi dovesse possedere il doppio LP e il giradischi può saltarla senza troppi rimpianti.

Il lato C, il più eterogeneo, vede due brevi composizioni di Robert Lamm alternate a un altro momento non del tutto riuscito, i nove minuti di "Memories of Love", composta da Terry Kath e dalla lunghissima introduzione in stile classico-orchestrale arrangiata dal compositore Peter Matz, conclusa da un soft rock non particolarmente memorabile.

Meglio sul lato C non solo l'eclettica "Fancy colours" ma soprattutto "25 or 6 to 4", un tour de force mostruoso della chitarra di Kath stesso, su un riff fantastico (che il pianista Robert Lamm 'recupera' da "Babe I'm gonna leave you" dei Led Zeppelin) e cantato dal bassista Peter Cetera. Giustamente incluso fra i più grandi soli di chitarra del rock di tutti i tempi, il brano è stato anche un successo di classifica come singolo ed è una delle canzoni simbolo dei Chicago e di questo album.

Il lato D è in gran parte riempito da un'altra suite, questa volta composta principalmente da Robert Lamm e cantata da Terry Kath, "It better end soon", jazz rock alquanto riuscito il cui momento migliore è ancora una volta il solo di Walt Parazeider, questa volta al flauto.

Il disco finisce con la prima canzone scritta dal bassista Peter Cetera per il gruppo, la delicata "Where do we go from here", portando a termine un ascolto coinvolgente e ricco di spunti per l'ascoltatore.

Nonostante qualche eccesso, "Chicago II" conferma la posizione di primo piano del gruppo nel rock di avanguardia americano. Sono ammirevoli le ambizioni del gruppo, la loro tecnica musicale squisita. Più controverso il messaggio politico, che al di fuori della chiara determinazione del leader del gruppo, il pianista-cantante Robert Lamm, sembra più superficiale e approssimativo negli altri. Il tempo purtroppo mostrerà che questa preoccupazione non era peregrina, tramutandosi in una diluizione delle ambizioni anche musicali e in una discutibile commercializzazione del suono - un altro caso di un gruppo che se non avesse avuto un successo eccessivo si sarebbe forse conservato come grande gruppo di culto; ma forse i milioni nei loro portafogli e le loro famiglie sono più contente così.

A ogni modo, nel 1969, queste cose sono ancora diversi anni di là da venire.

- Prog Fox

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