sabato 29 giugno 2019

Slipknot: "Slipknot" (1999)

Usciva oggi, vent'anni fa, il disco omonimo di esordio degli Slipknot, uno dei più importanti gruppi metal degli anni zero.



(disco completo qui: https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_ng4bRghc6r9fe2wceefMVTa_uuSDUhuVE)




Era il 1999, il 29 giugno precisamente, quando uscì l’esordio omonimo degli Slipknot, tanto acclamati quanto discussi, la band originaria di Des Moines (Iowa) partorì uno di quegli album che hanno segnato un’epoca. 

Facciamo un breve preambolo: nati per volontà del bassista Paul Gray (RIP) e del percussionista Shawn Crahan, venne reclutato nell’immediato seguito Joey Jordison (inizialmente scelto come percussionista per lasciare il posto dietro le pelli a Crahan, ma subito spostato alla batteria visto l’enorme divario tecnico fra i due), altro pilastro della band (che abbandonò poi nel 2013).

Cominciarono a muovere i primi passi come sestetto, cambiando più volte monicker, fino a produrre e stampare in mille copie il demo "Mate. Feed. Kill. Repeat." (oggi pezzo pregiato per i collezionisti).

Nel frattempo, vennero ingaggiati in sequenza i membri in pianta stabile che andranno a comporre la formazione classica a 8 elementi che tutti conosciamo: prima Craig Jones (synth e samples) e Mick Jones alla chitarra, seguiti a ruota dal cantante (e leader) Corey Taylor, e in seguito accompagnati dal DJ Sid Wilson (occupato al giradischi) e dalla seconda chitarra imbracciata da Jim Root. Ecco così assemblata la formazione a otto, che rimarrà stabile per oltre dieci anni, fino alla morte per overdose del fondatore Paul Gray, avvenuta nel 2010.

Se per il genere una formazione comprendente così tanti elementi è inusuale, lo è anche vederli suonare dal vivo completamente mascherati, non il classico face painting in stile black metal, ma vere proprie maschere a tema.

Scontato dire che il gruppo attirò subito l’attenzione di vari promoter, oltre che del produttore Ross Robinson, complice della loro fortuna. Robinson cominciò a lavorare a inizio anni ’90, scoprendo e portanto alla ribalta gruppi come Fear Factory, Korn, Limp Bizkit, e lavorando in seguito anche con Sepultura, Soulfly, Machine Head, tutti gruppi decisamente in auge in quel periodo.

Il sound definitivo che possiamo apprezzare negli Slipknot si può definire una miscela di questi gruppi: in primis i Korn, con le loro atmosfere malsane e l’inflessione crossover prodotta con distorsioni ribassate, i Sepultura per la loro influenza thrash tribaleggiante, i Machine Head per il loro groove-core, i Fear Factory per il massiccio dosaggio di campionamenti e la sezione ritmica fatta di riff stoppati, breakdown e niente assoli, e i Limp Bizkit (dell’esordio) per quanto riguarda la loro componente che talvolta vira verso sonorità rap metal.

Siamo quindi al cospetto di un gruppo derivativo? beh, potremmo dire di si, ma tutti questi ingredienti mischiati e shakerati insieme sono andati a creare un muro sonoro eretto dal gruppo inconfondibile.

E veniamo a un altro tema scottante, la denominazione del genere: non ci sono dubbi, gli Slipknot sono e rimarranno il gruppo più rappresentativo del correntone Nu Metal. Per dovere di cronaca, il termine fu coniato un paio di anni prima da un giornalista di Spin Magazine, tale Neil Strauss, nel suo reportage di un concerto dei Coal Chambers. Il nome è una chiara storpiatura modernizzata sullo stile thug life degli ambienti hip hop. Ora, eviteremo di buttarci nel solito inutile dibattito in cui si discute dove tracciare la linea che separa il crossover dal nu metal, ed eviteremo di sottolineare le differenze che dividono Slipknot dagli altri padrini del genere (Korn, Deftones, SOAD, Linkin Park, etc.), se non altro, perché fra loro gli Slipknot sono stati il gruppo più propriamente indirizzato verso influenze metal novantiane, restando coerenti al proprio stile per tutta la propria carriera.

Lo stile compositivo risulta abbastanza semplificato e molto omogeneo, pezzi diretti mediamente brevi (fatta eccezione per la conclusiva "Scissors"), orientati alla “forma canzone” tradizionale, senza tanti fronzoli e pipponi individuali, un miasma sonico dettato dalla ruvidezza delle chitarre e dal drumming forsennato di Jordison, accompagnato dai fendenti dei percussionisti e dalle tonnellate di malsani campionamenti e feed elettronici.

Taylor dietro al microfono è una furia, passa comodamente da un lacerante midgrowl, urlato a squarciagola alla Max Cavalera, al cantato pulito, alle declamazioni isteriche e schizzate in stile Jonathan Davis, suo principale punto di riferimento.

Anche dal punto di vista tematico, la soluzione è molto semplice: i testi sono basilari, trasgressivi, espliciti (abbondano i “fuck” e gli “shit”). In fondo, in ambito musicale, la formula di farsi portavoce di una generazione scontenta narrando di alienazione e disagio giovanile mischiato con un po’ di sano nichilismo autodistruttivo è sempre stata vincente, è stato così con il punk così come lo è stato con i Nirvana (fermo restando che la struggente prosa e il perverso simbolismo di Cobain si trovano su un altro livello), lo fu anche con la nu metal generation. Scontato aggiungere quanto modaiolo e di tendenza divenne a breve questo filone.

I primi cinque pezzi dell’album sono tutti grandi classici del gruppo, "Wait & Bleed" è il loro cavallo di battaglia, il groove perverso di "Surfacing" ha fatto scuola così come la selvaggia opener ("Sic"), la delirante "Eyeless" presenta echi di System of a Down, "Spit It Out" si districa invece verso sonorità più crossover e soft (per quanto possa essere soft un pezzo degli Slipknot) sfociando nel solito ritornello easy listening in growl/clean che ti acchiappa all’istante.

Fra gli outsider vale la pena segnalare "Prosthetics", il pezzo del lotto più “elaborato”, che fonde i Sepultura di Roots con Fear Factory e Machine Head, e la conclusiva "Scissors", che sembra quasi un pezzo dei Korn in preda a convulsioni epilettiche. Post scriptum: mandate avanti il cd e non perdetevi la ghost track che la segue!

All’epoca gli Slipknot spaccarono in due il pubblico, vennero disprezzati e odiati dai trve metaller e dalle frange più intransigenti, la critica talvolta li massacrò senza pietà, ma il clamore mediatico che suscitarono fu enorme. Dei casinisti buffoni mascherati di cui nessuno si ricorderà più appena passata la moda del momento, o un caposaldo per il metal del futuro, destinati a diventare dei leader della scena?

A distanza di vent’anni (e nonostante la loro carriera non sia stata poi così prolifica, vedi un solo deludente album pubblicato negli ultimi 11 anni) abbiamo la risposta, e ovviamente propende per la seconda opzione. La storia gli ha dato ragione.

- Supergiovane

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