sabato 15 giugno 2019

Nirvana: "Bleach" (1989)



(disco completo e uno zilione di bonus tracks qui:https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_m41nfVEtvAF4yTcaJwYQLwmpcdZjtQU6A)




Esiste una ferita che più o meno tutti i musicisti che riescono a raggiungere i favori delle masse plaudenti si trovano sulla pelle.
Una ferita che spesso si apre e che altrettanto spesso viene nascosta, anestetizzata: raramente affrontata e lasciata cicatrizzare.
Una ferita i cui margini sono l'integrità artistica, il bruciare prima di sparire, il fuoco puro, la certezza di essere se stessi e di non dire (sempre
a se stessi, almeno a se stessi) bugie, la paura di tradire e di rinnegarsi.

Ad affrontarla ci sono riusciti in pochi e Kurt Cobain non è stato tra questi.
Anzi, in questa ferita ci ha sguazzato: dilaniandola, dilaniandosi, dilaniandoci.

"Bleach" (1989), esordio dei suoi Nirvana, è la perfetta esposizione di questo taglio prima che i punti di sutura diventino un problema.
Il cliché è perfettamente rispettato: l'incendio divampa spontaneo, i battiti pulsano e la scena viene subito presa. L'approccio è punk ma un punk granitico, che si abbevera alla fonte dell'eclettismo hard rock, del garage.
"Blew" e "School" picchiano con basso e schitarrate cazzone ma non banali: non si è di fronte a meri epigoni di una scena o di un filone ma di
originali interpreti.
"Paper Cuts" è onirica e distante: la nenia urlata dalla necessaria ed indelebile voce di Cobain arriva diretta dalle viscere di un respinto, di un depresso. Dalla viva carne di una persona vera e reale.
Quanto è distante il patinato, quanto è nera, interessante e fica la notte di Kurt.
Kurt, che con questo disco integro, vitale e sincero comincia a scrivere del suo nulla cosmico ed esistenziale, dei suoi no a tutto, della sua necessità di essere un "Negative Creep" del cazzo.

Quanta fatica farà Kurt - e la pagherà tutta - a sopportare la bellezza che gli uscirà dalla penna anche con "Nevermind": che non sarà assolutamente disco
meno ruvido di questo, anzi, ma che si porterà dietro un peso di fronzoli al contorno francamente intollerabili.
"Bleach", torniamo a lui, scorre potente, coeso e denso come un torrente in piena.
La ricchezza ed il pregio non sta, in queste tracce, nella sovrastruttura tecnica ma nella necessità che ogni traccia sputa fuori. Ogni urlo, ogni riff è un nervo che si sfoga, che si scarica, che esplode.
Ancora: quanta sincerità, quanta impellenza, quanta - semplice - voglia.

Kurt riuscirà a non essere mai falso, né in questo disco né nei successivi. Forse intimamente lo sapeva, forse ne era razionalmente conscio: purtroppo non ne sarebbe mai stato convinto né certo.

Ma non è di sicuro qui la sede giusta per psicanalisi da accatto; restiamo su "Bleach", che è fondamentalmente questo: una dichiarazione di esistenza, di intenti e di identità, un manifesto martellante e scintillante a cui aderire e con il quale buttarsi nel pogo, giusto un attimo prima che arrivino gli anni '90 a prendersi - davvero - tutto.

- il Compagno Folagra

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