giovedì 27 giugno 2019

Karnivool: "Sound Awake" (2009)

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Okay okay, ora che abbiamo la vostra attenzione, ammettiamo che si trattava di un clickbait, ma se vi garbano Tool e A Perfect Circle, vi consigliamo di dare una chanche ai Karnivool, gruppo australiano nativo di Perth formatosi nel lontano 1997. Oggi prendiamo in esame "Sound Awake", loro secondo full-lenght uscito il 27 giugno del 2009.



L’esordio "Themata" risalente a quattro anni prima aveva riscosso un notevole interesse da parte della critica di settore, adeguatamente ricompensato da un buon successo di pubblico. Il gruppo era riuscito a mutare in modo significativo quello pseudo crossover/nu metal con cui si era presentato nei due mini che precedettero il primo full length.

Non si può nascondere che le due band madri di Maynard siano una concreta fonte di ispirazione per questo quintetto della terra dei canguri (per loro come per tantissimi altri), però è doveroso sottolineare che i Karnivool ci mettono anche del loro. Parecchio del loro.

Rispetto a "Themata", album cui l’artefice fu fondamentalmente il loro chitarrista (polistrumentista) e mastermind Andrew Goddard, il processo compositivo di "Sound Awake" ha visto la band ritrovarsi in studio per parecchi mesi sotto la supervisione del producer Forrester Savarell a provare, jammare, scrivere e comporre ogni singolo pezzo. E se qualcuno temeva che il passaggio ad una major come la Sony (a cui per dire la verità si appoggiarono solo come distributore internazionale) potesse annacquare e snaturare il loro sound, ogni timore viene immediatamente spazzato via.

"Sound Awake" risulta ancora più variopinto e complesso, oltre a quelle atmosfere oniriche e arcane alla Tool (pur conservando una forma snella e accessibile alla A Perfect Circle) la band australiana ingloba una propensione progressive con toni di psichedelia con inclinazioni squisitamente space-rock (altre influenze che si possono citare sono quelle di Oceansize, Dredg, Porcupine Tree del periodo "In Absentia" – "Deadwing" e i Muse dei primi anni).

Il lavoro alle due chitarre è eccellente, Goddard e il suo collega Mark Hosking intrecciano miriadi di riff ben rifiniti, assemblandoli con partiture metalliche e feed psichedelici, non mancano sincopi e distorsioni effettate. Il lavoro al basso di Jon Stockman è fondamentale nel supportare la sezione ritmica, scommettiamo tutto quello che volete che Justin Chancellor (bassista dei Tool) sia il suo riferimento musicale. Completa la sezione strumentale il drumming mai troppo sopra le righe di Steve Judd, preciso ed efficace.

Ultima, ma non meno importante, anzi, piuttosto ci verrebbe da dire visceralmente fondamentale per l’alchimia collettiva, è la performance di Ian Kenny, singer veramente molto estroso e dotato di un timbro inconfondibile, lodevole la sua capacità di approciarsi differentemente a ogni singola canzone. Basta confrontare la sua istrionica verve sprigionata in "Set Fire to the Hive" (scelto come singolo di lancio del disco) ai mood più ipnotici e misticheggianti (in una singola parola, maynardiani) dell’ottima opener "Simple Boy", e si mostra perfettamente a suo agio anche su pezzi più tesi e drammatici come "New Day" (splendide le linee di chitarra, compresi arpeggi e cluster) e "All I Know" (secondo singolo estratto) in cui il livello di intensità cresce sensibilmente.

Ambisce al titolo di miglior pezzo del lotto anche "Goliath" (che personalmente il recensore adora), con il suo incedere ammaliante e magnetico giocato con continui intrecci tessuti dalle corde del trio Goddard – Stockman – Hosking, boccone decisamente prelibato per chi si nutre di sincopi e distorsioni. Troviamo anche un assaggio di Opeth nella breve "The Medicine Wears Off", posta a metà album. Non ci riteniamo affatto stupiti, del resto i Karnivool avevano omaggiato anche i Meshuggah con "Scarabs" nel precedente lavoro, ci troviamo in compagnia di un gruppo onnivoro.

Chiudono le lunghe "Deadman" e "Change pt.II" (entrambe superano i dieci minuti di durata), composizioni perfettamente coerenti e in sintonia con la direzione musicale verso cui si è voluto indirizzare l’album.

Quasi un’ora e un quarto che scorre comunque via che è una bellezza, specialmente se siete estimatori delle altre band che abbiamo citato in questa recensione.
Difficile dire se questo album sia più valido del folgorante esordio, certamente "Sound Awake" risulta meno immediato e a tratti più ostico, ma ne guadagna in longevità.

Sono passati dieci anni, se non avete mai sentito nominare i Karnivool i motivi ci sono: in primis diciamo che nonostante l’Australia abbia dato i natali nel corso degli anni duemila a gruppi del panorama alt/prog sicuramente validi, essi hanno spesso faticato a sfondare oltre i confini nazionali e a dare continuità alla propria carriera (vedi anche i casi di The Butterfly Effect, Dead Letter Circus e COG). Ed è esattamente ciò che è capitato ai Karnivool: con la regolare cadenza di quattro anni, se ne uscirono con un mediocre terzo album "Asymmetry", un lavoro davvero insipido e poco ispirato. Da allora il gruppo non ha più rilasciato nulla, limitandosi a esibirsi live (non spesso) in patria con qualche sconfinamento in nord America e di rado in Europa (li ricordiamo di supporto agli Stone Sour nell’unica volta che hanno toccato l’Italia).

Un gruppo promettente che ha inciampato e si è perso per strada, un vero peccato. Di fatto sono ancora attivi, e dato che fra non molto uscirà il tanto agognato nuovo album dei Tool, a questo possiamo aspettarci di tutto. Anche la resurrezione con un ritorno in grande stile dei Karnivool.

- Supergiovane

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