Il 12 giugno di cinquant'anni fa vengono completate le registrazioni di "Volunteers", quinto album in studio del gruppo psichedelico americano dei Jefferson Airplane, uno dei più grandi gruppi rock degli anni sessanta e sicuramente il più noto assieme ai Grateful Dead.
"Volunteers" è per alcuni il capolavoro definitivo della band; per altri, un disco affossato da un eccesso di filosofia hippie e proclami politici rivoluzionari.
(album completo con bonus tracks:https://www.youtube.com/ playlist?list=OLAK5uy_lISo2 IXu6GHY3N-UNMocMuPDXRP2x5H sM)
“We are all outlaws in the eyes of America/In order to survive we steal cheat lie forge fuck hide and deal/We are obscene lawless hideous dangerous dirty violent and young.”
Con queste parole i Jefferson Airplane cercano di apporre il proprio marchio nella storia, la storia che potrebbe definire il loro "Volunteers", quinto album della band di San Francisco, come il più grande album della controcultura americana. È vero, c'è il disco di esordio degli MC5, ma è troppo punk, violento e intrattabile; ci sono "Anthem of the Sun" e "Aoxomoxoa" dei Grateful Dead, ma non sono abbastanza politici, anzi non lo sono per niente, testimonianze di una estasi artistica e spirituale fatta di droga e comunitarismo ma senza ambizioni veramente rivoluzionarie; ci sono i Byrds e Crosby, Stills, Nash & Young, ma Young era uno che andava per conto suo e gli altri erano comunque troppo umili e musicalmente molto più folk/cantautorili che psichedelici; i Doors e i Velvet Underground erano, ciascuno a modo loro, nichilisti ostaggio dei propri leader poeti maledetti e decadenti; c'è Jimi Hendrix, ma Jimi Hendrix è Jimi Hendrix ed è una categoria tutta sua, che va molto al di là del valore della controcultura.
Così "Volunteers", che, lo ripetiamo esplicitamente se non si fosse capito, è un capolavoro del rock, si pone forse come l'LP fondamentale da ascoltare se si vuole scegliere un solo disco con cui capire qualcosa della controcultura americana di quegli anni.
"Volunteers" è il disco finale dell'armonia di un sestetto di eccezionali autori e musicisti: Paul Kantner, il leader, agitatore politico e autore di testi controversi e brillanti, chitarrista e cantante; Marty Balin, un folksinger introverso dalla grande voce, meno interessato alla politica e più alle buone melodie; Grace Darby Slick, la cantante, pianista e autrice resa immortale da "Somebody to love" e "White Rabbit", i grandi successi del loro secondo album "Surrealistic Pillow"; Jorma Kaukonen, uno dei più grandi chitarristi solisti americani degli anni sessanta; Jack Casady, bassista superbo dalle grandi linee melodiche; Spencer Dryden, batterista e studioso di musica di avanguardia.
A loro si affiancano in diversi brani alcuni grandi attori dell'epoca: il chitarrista dei Grateful Dead, Jerry Garcia; il percussionista Joey Covington che sostituirà Dryden un paio d'anni dopo; il pianista inglese Nicky Hopkins, uno dei sessionmen più richiesti dell'epoca, volato in America e in procinto di unirsi a un altro grande gruppo di San Francisco, i Quicksilver; le Ace of Cups, forse il primo gruppo rock totalmente femminile, che qui compaiono ai cori in "The Farm" e "Turn my life down"; ci sono Stephen Stills e David Crosby.
Il disco si apre e si chiude con due capolavori nel capolavoro, "We can be together" e "Volunteers", inni marziali per la rivoluzione politica, sociale, culturale e spirituale dei giovani americani. "We can be together" in particolare è una delle più grandi canzoni rock mai state scritte e incise; e "Volunteers" le è di poco inferiore, un call-and-response in salsa gospel-hard rock dominato dallo sgolato canto di Balin, qui al picco assoluto della propria carriera.
Tutto il resto passa in secondo piano di fronte a questi diamanti purissimi, ma è giusto non farsi prendere dalla tentazione di trascurarlo: le bucoliche "Good Shepherd" e "The Farm"; la chitarra straordinaria di Kaukonen in "Turn my life down"; l'introduzione di flauto dolce di Grace Slick nella graffiante "Eskimo Blue Day", con basso, batteria, chitarra e voci che si amalgamano magistralmente nel fantastico crescendo centrale; "Wooden Ships" è la lettura di Kantner del pezzo che scrisse assieme a Stills e Crosby e che era già apparso (in una forma forse più interessante) sul primo disco di Crosby, Stills & Nash proprio mentre gli Airplane completavano l'album.
Un anno dopo "Volunteers", Dryden e Balin lasceranno, mentre il resto del gruppo si frazionerà in progetti secondari e in scelte profondamente sbagliate. Il successo commerciale che accompagna un album così rivoluzionario va alla testa dei musicisti, che iniziano a sentirsi superstar e capipopolo, litigando fra di loro e spingendo Kantner e Slick verso lidi sempre più ambiziosi e pomposi, affiancati da droghe, sesso e delirio di onnipotenza inappropriati ai loro ideali precedenti ma anche al nuovo clima degli anni Settanta, che ormai erano dominati dal riflusso e dalla fuga nel privato. I Jefferson Airplane si trasformeranno così in Jefferson Starship e produrranno del buon rock da classifica che per testi e compromissione artistica faranno vergognare i fan della prima ora.
Questo grave monito sulla caduta degli dei non deve in alcun modo precluderci l'ascolto di un capolavoro come "Volunteers", ma rinnovare in noi il proposito di non abbandonare mai i sogni di rivoluzione, per quanto ingenui, pena il rischio di diventare come i Jefferson Starship.
- Prog Fox
“We are all outlaws in the eyes of America/In order to survive we steal cheat lie forge fuck hide and deal/We are obscene lawless hideous dangerous dirty violent and young.”
Con queste parole i Jefferson Airplane cercano di apporre il proprio marchio nella storia, la storia che potrebbe definire il loro "Volunteers", quinto album della band di San Francisco, come il più grande album della controcultura americana. È vero, c'è il disco di esordio degli MC5, ma è troppo punk, violento e intrattabile; ci sono "Anthem of the Sun" e "Aoxomoxoa" dei Grateful Dead, ma non sono abbastanza politici, anzi non lo sono per niente, testimonianze di una estasi artistica e spirituale fatta di droga e comunitarismo ma senza ambizioni veramente rivoluzionarie; ci sono i Byrds e Crosby, Stills, Nash & Young, ma Young era uno che andava per conto suo e gli altri erano comunque troppo umili e musicalmente molto più folk/cantautorili che psichedelici; i Doors e i Velvet Underground erano, ciascuno a modo loro, nichilisti ostaggio dei propri leader poeti maledetti e decadenti; c'è Jimi Hendrix, ma Jimi Hendrix è Jimi Hendrix ed è una categoria tutta sua, che va molto al di là del valore della controcultura.
Così "Volunteers", che, lo ripetiamo esplicitamente se non si fosse capito, è un capolavoro del rock, si pone forse come l'LP fondamentale da ascoltare se si vuole scegliere un solo disco con cui capire qualcosa della controcultura americana di quegli anni.
"Volunteers" è il disco finale dell'armonia di un sestetto di eccezionali autori e musicisti: Paul Kantner, il leader, agitatore politico e autore di testi controversi e brillanti, chitarrista e cantante; Marty Balin, un folksinger introverso dalla grande voce, meno interessato alla politica e più alle buone melodie; Grace Darby Slick, la cantante, pianista e autrice resa immortale da "Somebody to love" e "White Rabbit", i grandi successi del loro secondo album "Surrealistic Pillow"; Jorma Kaukonen, uno dei più grandi chitarristi solisti americani degli anni sessanta; Jack Casady, bassista superbo dalle grandi linee melodiche; Spencer Dryden, batterista e studioso di musica di avanguardia.
A loro si affiancano in diversi brani alcuni grandi attori dell'epoca: il chitarrista dei Grateful Dead, Jerry Garcia; il percussionista Joey Covington che sostituirà Dryden un paio d'anni dopo; il pianista inglese Nicky Hopkins, uno dei sessionmen più richiesti dell'epoca, volato in America e in procinto di unirsi a un altro grande gruppo di San Francisco, i Quicksilver; le Ace of Cups, forse il primo gruppo rock totalmente femminile, che qui compaiono ai cori in "The Farm" e "Turn my life down"; ci sono Stephen Stills e David Crosby.
Il disco si apre e si chiude con due capolavori nel capolavoro, "We can be together" e "Volunteers", inni marziali per la rivoluzione politica, sociale, culturale e spirituale dei giovani americani. "We can be together" in particolare è una delle più grandi canzoni rock mai state scritte e incise; e "Volunteers" le è di poco inferiore, un call-and-response in salsa gospel-hard rock dominato dallo sgolato canto di Balin, qui al picco assoluto della propria carriera.
Tutto il resto passa in secondo piano di fronte a questi diamanti purissimi, ma è giusto non farsi prendere dalla tentazione di trascurarlo: le bucoliche "Good Shepherd" e "The Farm"; la chitarra straordinaria di Kaukonen in "Turn my life down"; l'introduzione di flauto dolce di Grace Slick nella graffiante "Eskimo Blue Day", con basso, batteria, chitarra e voci che si amalgamano magistralmente nel fantastico crescendo centrale; "Wooden Ships" è la lettura di Kantner del pezzo che scrisse assieme a Stills e Crosby e che era già apparso (in una forma forse più interessante) sul primo disco di Crosby, Stills & Nash proprio mentre gli Airplane completavano l'album.
Un anno dopo "Volunteers", Dryden e Balin lasceranno, mentre il resto del gruppo si frazionerà in progetti secondari e in scelte profondamente sbagliate. Il successo commerciale che accompagna un album così rivoluzionario va alla testa dei musicisti, che iniziano a sentirsi superstar e capipopolo, litigando fra di loro e spingendo Kantner e Slick verso lidi sempre più ambiziosi e pomposi, affiancati da droghe, sesso e delirio di onnipotenza inappropriati ai loro ideali precedenti ma anche al nuovo clima degli anni Settanta, che ormai erano dominati dal riflusso e dalla fuga nel privato. I Jefferson Airplane si trasformeranno così in Jefferson Starship e produrranno del buon rock da classifica che per testi e compromissione artistica faranno vergognare i fan della prima ora.
Questo grave monito sulla caduta degli dei non deve in alcun modo precluderci l'ascolto di un capolavoro come "Volunteers", ma rinnovare in noi il proposito di non abbandonare mai i sogni di rivoluzione, per quanto ingenui, pena il rischio di diventare come i Jefferson Starship.
- Prog Fox
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