giovedì 20 giugno 2019

Faith No More: "The Real Thing" (1989)




(album completo con mille bonus qui:https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_mzrlxmIPYIDTswxKMyfgAAqAr_H_jR8O8)




Schiaffate "The Real Thing" nel lettore, direste mai che questo disco ha già trent’anni sul groppone? Eh si, perché gli eroi del giorno, i Faith No More, lo rilasciarono sul mercato mondiale il 20 giugno del 1989.

A distanza di tutto questo lunghissimo (musicalmente parlando) lasso di tempo "The Real Thing" suona ancora fresco, avanguardistico e ancora fottutamente accattivante. A scanso di equivoci però, chiariamolo subito, non sono stati propriamente i pionieri di quelle contaminazioni fra generi (rock, funky, rap, soul, metal) che hanno dato vita a quella nuova corrente chiamata all’epoca Crossover, in tempi non sospetti si mossero su queste coordinate anche Red Hot Chili Peppers, Jane’s Addiction, Living Colour, o anche i Primus, e chissà quanti altri gruppi la cui fama si è ormai dissolta fra le nebbie del tempo…

Dobbiamo però rendere merito ai Faith No More di essersi spinti anche oltre, incorporando strada facendo nel loro sound l’irruenza del punk e dell’hardcore e la raffinatezza del jazz classico. E soprattutto, rendiamo merito al gruppo di San Francisco di aver scoperto quella che è stata la figura maggiormente di spicco nell’ampio panorama rock: stiamo ovviamente parlando di Mike Patton.

Reduci da un paio di dischi discreti e coraggiosi ma ancora acerbi, la grande fortuna della band fu quella di rimpiazzare il defezionario singer Chuck Mosley (e prima di lui, agli esordi, dietro al microfono ci fu Courtney Love… si, QUELLA Courtney Love) con l’istrionico Patton, cantante dal timbro caldo e camaleontico, con in dotazione un ampio registro vocale, tecnica sopraffina e capacità interpretative fuori dal comune.

Scontato dire che se il buon Mosley non se ne fosse mai andato (complici anche i suoi problemi personali di droga e alcolismo e con gli altri membri della band, con cui non condivideva più gli schemi compositivi) per concentrarsi su altri progetti (fallimentari e trascurabili), la storia non solo del gruppo, ma del rock alternativo, sarebbe molto diversa.

Vedete, per gli adepti del culto, Patton è come un’entità divina, l’alfa e l’omega, protagonista di svariati progetti alternativi e/o paralleli e/o collaborazioni che propinano le più disparate influenze musicali (Mr. Bungle, Tomahawk, Fantomas, Peeping Tom, Mondocane, Dead Cross, e forse ce ne sfugge qualcuna) - ogni accolito pattoniano non può esimersi dall’adorare anche le più tronfie cagate che Patton abbia prodotto. Siamo addirittura un gradino sopra Maynard, sulla scala gerarchica.

Tornando all'album e scorrendo la tracklist possiamo ammirare come questa assuma più i connotati di un greatest hits piuttosto che di un album da studio, ma dovendo indicare i pezzi più rappresentativi, ovviamente puntiamo per prima il dito in direzione di "Epic", una canzone cui basterebbe il titolo per descriverla, questo signori è IL Crossover per eccellenza, memorabili i riff portanti ad opera del chitarrista Jim Martin, che assieme a Roddy Bottum dà vita a intrecci armonici variegati dal forte potere attrattivo (sempre preziosi e funzionali alle singole canzoni i suoi inserti tastieristici, mai invasivi), ben sorretti da una funkeggiante sezione ritmica eretta dai sempre preziosi Billy Gould al basso e Mike Bordin dietro le pelli, su cui Patton rappa e ci delizia con un refrain che più anthemico di così non si può.

Impareggiabile l’apporto del cantante all’alchimia collettiva. Il gruppo è totalmente rinato e gode di piena linfa vitale rispetto a quanto ci aveva abituato ad ascoltare nell’immediato passato. "Epic" è certamente il pezzo più rappresentativo dei Faith No More, quello con cui ogni rockettaro del globo identifica all’istante la band di Patton e soci (tranne forse in Italia, se non altro per via del film “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”…). L’attitudine metal & core viene sprigionata dalla trascinante "Surprise! You’re Dead", così come Patton sprigiona tutta la sua strabordante indole istrionica, questo pezzo è quello che viene comunemente catalogato come una figata atomica (mi sfugge il termine forbito per definirlo, ma facciamo finta lo abbia trovato…)!

In apertura, abbiamo accennato come il gioco di prestigio messo in atto dai Faith No More sia quello di fondere poderosi riff granitici a inflessioni funky, dalle atmosfere disinvolte e solari, l’opener "Out From Nowhere" e "Fall To Pieces" mostrano concretamente ciò che intendiamo esplicare, e non a caso furono proposti come gli altri singoli che accompagnarono "Epic". E la suadente e irriverente "Underwater Love" non è certo da meno.

Il tocco più “autoriale” del gruppo viene evidenziato da "Zombie Eaters", pezzo dove l’atmosfera si fa più tesa e intensa, la formula non è nuova: la canzone comincia con delicati arpeggi acustici che vanno ad accompagnare Patton narratore/menestrello, si aggiungono docilmente i synth di Bottum che contribuiscono ad aumentare il climax, fino allo stacco deciso in cui irrompono gli altri strumenti nel passaggio da acustico a metallico, aumenta la tensione fino al finale in crescendo, per poi congedarsi così come è iniziata, con ritmi pacati dettati dalla chitarra acustica, dai synth e dal lento vibrare delle corde vocali di Patton.

Dalle molteplici sfaccettature anche la lunga title track, dal sapore jazz inframezzato da furiose digressioni metalliche. Lo slanciato estro compositivo del gruppo è tale che possono permettersi di sconfinare pure in territori progressive psichedelici con la sublime strumentale "Woodpecker from Mars", dove ogni membro dà libero sfogo alla propria vena produttiva. Anche "The Morning After", quello che è il pezzo meno riuscito del lotto, si mostra comunque piacevole e in linea con quanto proposto con quest’album.

Probabilmente il gruppo pecca di pretenziosità con la cover della celebre "War Pigs" dei Black Sabbath, storico pezzo antibellicista piuttosto fedele all’originale, in cui vengono apportati significativi cambiamenti e personalizzato soltanto negli assoli (in parte) e nel finale più rocambolesco.

Chiude "Edge Of The World", composizione che inaugura il mood da piano bar abbinato all’attoriale temperamento del bizzarro singer. Nella canzone, Patton narra in prima persona il canto poetico di un pedofilo, a testimoniare l’eccentrica e dissacrante verve del poliedrico singer.

All’epoca dell’album, Mike Patton (all’anagrafe Michael Allan Patton, originario della californiana Eureka) aveva soltanto ventun anni, a dispetto della sbalorditiva maturità vocale mostrata. Non poteva scegliere un biglietto da visita migliore per presentarsi sulla scena musicale.

Si okay, va bene, questo non è certo un esordio, non propriamente, ma l’inizio della nuova esistenza che ha permesso ai Faith No More di marchiare a fuoco con caratteri cubitali il proprio nome nella storia della musica. Sui generis, sempre fuori dagli schemi. Essenziali, imprescindibili.

- Supergiovane

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