mercoledì 22 maggio 2019

Ornette Coleman: "The Shape of Jazz to Come" (1959)



(il disco completo si trova qui: https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_n7YmaDfWV83iiAeKf3YtJzwa952vExGgs)




Nonostante il fatto che C'era una volta il rock continui a suggerirmi di fare recensioni di dischi jazz, io di jazz non capisco niente, e in genere sono già contento se di un disco riesco ad apprezzare una canzone. Se ne apprezzo una, già il disco è un successo, se ne apprezzo due probabilmente sto ascoltando, senza saperlo, un capolavoro. "The Shape of Jazz to Come" è un capolavoro ma riesco quasi a capirlo, per dire che capolavoro è.

Nel 1959 la tendenza principale del jazz, il post-bebop, è portata al suo culmine, pare da "Giant Steps" di John Coltrane. Il bebop aveva sradicato il jazz dal blues e dal pop: quelle belle canzoni jazz swingate degli anni trenta e quaranta che andavano in classifica e venivano poi tutte ricantate da Frank Sinatra negli anni cinquanta erano una volta il jazz, un jazz inglobato dalla cultura bianca anche quando era suonato da neri. Però i neri la sera poi andavano a suonare nei club e Charlie Parker sfidava tutti a chi riuscisse a tirare fuori gli assoli più pesi dagli standard, oltre a inventare nuove composizioni che davano spazio ad assoli sempre più complicati. Era il bebop.

Negli anni cinquanta, il bebop divenne sempre più complesso perché i nuovi autori, caricati a pallettoni anche da droga e alcool, diventavano sempre più visionari, astratti e virtuosi, e il virtuosismo significava prima di tutto sequenze di accordi sempre più complicate, su cui improvvisare diventava sempre più difficile.

Culmine di questo modo di improvvisare è appunto il sopracitato "Giant Steps" di Coltrane, con la omonima composizione che viene considerato uno dei pezzi jazz più complicati dal punto di vista dell'armonia.

Nel frattempo però si muoveva qualcosa nella direzione opposta. Miles Davis e Ornette Coleman interpretarono questa visione in due modi diversi: Miles, che era sempre stato uno cool, interessato al mood più che al virtuosismo, inventò il jazz modale, che basava le improvvisazioni sui modi invece che sugli accordi, rendendo le improvvisazioni più facili invece che più difficili, per liberare il suono da una certa costipazione virtuosistica. Nacque così "A kind of blue", per molti il capolavoro della sua carriera. Peraltro anche successo di pubblico, perché era anche molto più ascoltabile del jazz cerebrale che aveva dominato gli anni precedenti, pur rimanendo di altissima qualità intellettuale.

Ornette, invece, seguendo l'esempio e l'intuizione del trombettista Gerry Mulligan, iniziò liberandosi dello strumento che eseguiva gli accordi - quindi niente piano, niente chitarra, solo batteria, contrabbasso, sax e tromba, questo già in "Something Else", il suo secondo album. Per il terzo album, la casa discografica Atlantic, comprendendo il potenziale del suo primo disco per loro, decise con chiara operazione di marketing di lanciarlo sul mercato col nome altisonante e acchiapponissimo "The Shape of Jazz to Come", ispirato a un libro di fantascienza di Herbert George Wells ("The Shape of Earth to Come").

Per Coleman, il discorso alla base della sua innovazione è lo stesso di Davis: liberarsi della costrizione degli accordi. Ma mentre Davis lo fa con rigore teorico, messo nero su bianco in quegli anni dai libri di teoria musicale del jazzista George Russell, Coleman vuole che tutto sia basato solo su una melodia di partenza e poi sulla totale libertà dell'artista di esprimere l'umore triggerato dalla melodia nella sua successiva improvvisazione. L'effetto è da un lato molto più emotivo della musica di Miles, ma dall'altro anche molto più straniante. Infatti questa idea porterà successivamente allo sviluppo di improvvisazioni sempre più caotiche e collettive degli strumenti. Questa idea è l'atto di nascita ufficiale di un genere la cui atmosfera già si stava sentendo nell'aria, ovvero il free jazz, che porterà una marea di musicisti fenomenali a incidere musica francamente orribile che a confronto il noioso bebop ultravirtuosistico suona parente stretto di una hit di Britney Spears.

In "The Shape of Jazz to Come", però, siamo ancora agli albori del free jazz e la musica è generalmente molto godibile e fresca, minimalista, senza botte di pianoforte che intasino il suono e senza dodici strumenti che agiscono contemporaneamente. Ci sono la batteria di Billy Gibbons e il contrabbasso di Charlie Haden, che agiscono con discrezione sullo sfondo, e poi ci sono il sax di plastica di Ornette Coleman e la tromba di Don Cherry che prima di tutto pensano alle melodie, regalando momenti comprensibili anche al pubblico ignorante, come "Lonely Woman" (strappamutande come poche), "Peace" (col tema ripreso e variato in duetto più volte da Cherry e Coleman) e "Congeniality", fresca e sbarazzina come troppo poco jazz è.

Un'altra composizione dell'album fondamentale ma molto più dura da ascoltare è "Focus on Sanity", perché il tema melodico è volutamente sgradevole, l'assolo di Coleman è violento e aggressivo, quello di Cherry che segue è un po' meno sostenuto ma comunque sporco e sgraziato. Lo stile dei due solisti era in quegli anni divenuto volutamente pieno di sbavature, sangue e sudore, che era poi un altro motivo per cui Miles Davis non amava né Ornette Coleman né Don Cherry: lui era un apollineo e il suo jazz modale usciva dagli schemi del bebop ma rimaneva pulito e regolare. Due modi diversi di interpretare la libertà.

O comunque questo lo dico io che di jazz non capisco niente.

- Red

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