venerdì 17 maggio 2019

Moby: "Play" (1999)

Il 17 maggio di venti anni fa usciva "Play", l'album del grande e meritato successo dell'artista americano Richard Melville detto Moby (in quanto pro-pro-pronipote di Hermann Melville, l'autore di "Moby Dick").
Un disco bellissimo, nel senso più puro del termine.



(disco completo disponibile qui:https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_lQGTPIbcOIGSMeUBeq-xZxq09tXbCeAes)




Ci sono dischi la cui memoria viene schiacciata, retrospettivamente, sotto il peso del loro proprio successo. Album belli, anche bellissimi, la cui sovraesposizione ha contribuito ad inquinarne il ricordo, rendendoceli stucchevoli. Richard Melville Hall, detto Moby per via della sua parentela col Melville scrittore, doveva essere davvero entusiasta dell’enorme attenzione che questo LP ottenne all’epoca del suo lancio. Tra nomination ai più prestigiosi premi musicali del mondo e il record del disco di elettronica più venduto della storia (oltre 12 milioni di dischi!), il musicista newyorkese doveva essere ben contento di essersi lasciato alle spalle il fiasco di “Animal Rights”, il suo disco precedente che abbandonava le atmosfere electro degli esordi per suoni più chitarrosi, addirittura tangenti il punk ed il metal. Talmente contento che, delle diciotto canzoni che compongono questo “Play”, si contano sulle dita di una mano quelle che non sono state date in licenza per pubblicità o colonne sonore: “Porcelain”, “Why does my heart feel so bad”, “Natural Blues”, e “Rushing” sono solo i più famosi earworms usciti da “Play”.

Scrivendo questa recensione pensavo che, tornando indietro, Moby deciderebbe di essere più cauto nel concedere il frutto del suo lavoro in maniera così liberale, allo scopo di preservarne l’impatto, perchè la qualità di queste tracce, al netto della loro “consunzione”, rimane di assoluto livello. Ma a quanto pare, avevo capito tutto al contrario: furono le radio ele TV musicali che snobbarono “Play” al momento dell’uscita, considerandolo “non abbastanza” commerciale o radiofonico. La concessione in licenza di queste tracce fu un’idea di Moby stesso, e del suo entourage, per garantirsi una maggiore visibilità.Il trucco riuscì, e l’album divenne un successo commerciale con pochi paragoni.

La commistione di beats elettronici, intensità blues e cori gospel e atmosfere colora “Play” di tinte pastello, a tratti gioiose o più spesso malinconiche, sovente ballabili ma perfettamente ascoltabili in cuffia, comodi sul divano di casa. Tra un sampling deiCreedence Clearwater Revival e uno di Joe Cocker, tra trionfanti voci femminili e arrangiamenti di synth-arc, quest’album ci culla in un’intimità amniotica, in un mondo interiore in cui riscoprirsi innocenti. “Porcelain” e “Why does my heart feel so bad” sono forse i brani che meglio spiegano questo tipo di effetto, e sarebbe consolatorio dire che forse l’ondata di piccoli e grandi imitatori di queste atmosfere hanno contribuito a bruciarne l’impatto ma no, sarebbe una bugia: purtroppo alcuni di noi hanno ascoltato queste canzoni una o dieci volte di troppo, e la magia è, almeno in parte, perduta per sempre. Ma non si può, in tutta coscienza, sconsigliare questo disco solo perchè è TROPPO BELLO e tutti se ne sono accorti al momento della suauscita, giusto? Non si può volerne a Moby, che assurse al rango di superstar internazionale suo malgrado, grazie ad un’intuizione che esaurirà il suo impatto nel giro di un paio di dischi, lasciandolo errante alla ricerca di nuove idee altrettanto buone.

Se non avete mai ascoltato “Play”, siamo pronti a garantirvi una delle esperienze musicali cruciali dei tardi anni ’90, oltre che un simpatico gioco di “dove l’ho già sentita questa?”; se invece, come chi scrive, lo avete ascoltato decine di volte, ma l’ultima risale a un decennio fa, dategli una chance ora che le acque si sono calmate, e provate a dire seriamente che non merita tutto il successo che ha avuto.In una nota a margine, gli “esperti” di musica imperversano ancora in label e radio, decretando spesso il destino di album che, spesso, non comprendono nemmeno "Why does my heart feel so bad?"

- Spartaco Ughi

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