(album completo disponibile qui: https://www.youtube.com/
Non avviene spesso di recensire dischi aberranti, perché non ci piace picchiare gli artisti, specie quelli che amiamo. Ma "Discovery" è sicuramente un disco aberrante che può essere recensito, anche solo per il fatto che sia stato il più grande successo commerciale della Electric Light Orchestra.
Nata nel 1970 come gruppo di rock progressivo formato dal cantante-chitarrista Jeff Lynne, dal cantante-polistrumentista Roy Wood e dal batterista Bev Bevan, la band perse Wood in una delle mille lotte fra leader che caratterizzano il rock (e non solo) e iniziò a spingersi pian piano verso il pop rock, in maniera simile a quanto fecero per esempio i Supertramp, anche se in Lynne emerse soprattutto la sua passione per i Beatles (che lo avrebbe portato in futuro a diverse collaborazioni con George Harrison).
La direzione pop del gruppo restò saldamente confinata al di qua della linea che separa buon gusto e kitsch fino a "Discovery", quando, complice la scelta di saltare sul carro della disco (come si capisce dal terribile titolo), il gruppo incise del materiale davvero disturbante, riuscendo paradossalmente a conquistare il suo massimo successo commerciale (#1 nel Regno Unito, #6 negli Stati Uniti). Il gruppo si priva del suo trio di archi (che compare solo nei video musicali dell'epoca) e rimane così solo il quartetto di base storico, formato da Lynne, Bevan, dal tastierista Richard Tandy e dal bassista e seconda voce Kelly Groucutt, oltre all'impiego di una orchestra in stile disco music.
L'album si apre con due aberranti esempi di pop aberrante, ovvero "Shine a little love" e "Confusion", la prima pesantamente contaminata dalla disco music peggiore, la seconda una ballata zuccherosa a livelli intollerabili. La cosa peggiore è che il talento e le melodie della Electric Light Orchestra si intravedono, forniscono una sagoma che è ancora più fastidiosa alla luce degli arrangiamenti inadatti, dando una sensazione di sbagliato forte quanto l'intravedere la fisionomia del cane nel corpo del mostro de "La Cosa" di Carpenter. Il brano finale "Don't bring me down" peggiora le cose con un'altra aberrazione indescrivibile che ebbe pure lei un inspiegabile successo come singolo.
L'unico momento in cui questo tentativo di commistione prog-pop-disco funziona è l'ottima "Last Train to London", il brano per cui si tende a ricordare l'album, grazie a un ritornello irresistibile e al tiro del piano elettrico di Richard Tandy. Purtroppo il pezzo rimane un elemento isolato in un disco pieno di pezzi discutibili, al punto che il semplice e certamente non innovativo pop rock mccartneyano di "Need her love" sembra un capolavoro a confronto.
Non tutto è da buttare, insomma, ma l'impressione generale del disco è appunto quella che i pezzi siano arrangiati in modo disfunzionale anche quando hanno del potenziale ("On the run", con alcuni momenti sublimi, tipo il finale, e altri che proprio no). Insomma, si ripete l'impressione di un disco profondamente sbagliato, che se venisse riscritto e riarrangiato da capo potrebbe però risultare in qualcosa di notevole.
Una bella occasione sprecata, una bella copertina sprecata.
- Prog Fox
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