sabato 18 maggio 2019

David Bowie: "Lodger" (1979)


Il 18 maggio di quarant'anni fa usciva "Lodger", disco di David Bowie che concludeva la sua cosiddetta trilogia di Berlino - per quanto non una sola nota dell'album fosse registrata in quella città. Il disco, ancora una volta collaborazione con Brian Eno, Tony Visconti, Carlos Alomar, Dennis Davis e George Murray, vede al suo fianco i nuovi innesti di Adrian Belew alla chitarra solista e Simon House al violino e ai sintetizzatori.






Cosa, cosa si può fare, dopo essersi salvati dalla “fine del rock” (e da seri rischi per la vostra salute)? Dopo aver contribuito in maniera tangibile alla Nuova Onda che portò la pop music in territori inesplorati? Che altro si può chiedere, dopo aver fatto un disco con Eno come guida spirituale e Fripp come chitarra solista?

Per esempio, puoi andare a rubare il chitarrista a Frank Zappa, che poi ti insulterà chiamandoti “capitano Tom” quando tu cercherai di spiegargli che il giovane Adrian Belew suonerà sui tuoi palchi, ai tuoi concerti. Poi, puoi rimetterti a scrivere assieme a Eno il nuovo album, tenendoti ben stretto il giovane Belew, e inciderlo tra la Svizzera e New York.

Puoi fare tutto questo e puoi fare tutto quello che vuoi, puoi anche chiamare il trittico di cui quest’album fa parte “Trilogia Berlinese”, David, anche se nemmeno una nota di quest’album è stata suonata a meno di 300 km dalla porta di Brandeburgo.

Puoi farlo perché Berlino all’epoca era una dimensione dell’anima, il simbolo ultimo del Secolo Breve delle dittature, perfetta sineddoche delle nevrosi dell’umanità all’antivigilia del terzo millennio, e questo “Lodger” è, certamente, un disco piuttosto nevrotico.

“Low” e “Heroes” erano apertamente debitori della musica cosmica tedesca di Neu!, Cluster e Can, le cui atmosfere vennero semplicemente spalmate sul songwriting del caro David e poi laccate a nuovo dall’arte obliqua di Eno; erano entrambi dischi divisi in due, canzoni sul lato A e strumentali sul lato B (eccetto “Secret life of Arabia”, ok, ma ci siamo capiti); ed entrambi erano dischi dal fascino fresco, capaci di generare stupore immediato nell’ascoltatore.

“Lodger”, d’altro canto, non è immediato per niente, e i suoi killer tunes (che pure ci sono) sono tenuti oltre una cortina di canzoni stortignaccole come “Fantastic Voyage” e “Yassassin”, di esperimenti proto-rap tipo “African night flight”, di white funk estenuanti à la “Move on” o “DJ”, dominati dalla chitarra di Belew (come del resto anche la cavalcatona rock di “Red Sails”). Siamo già ben dentro il lato B di “Lodger” quando le sue due hit, “Look back in anger” e “Boys keep swinging”, ci vengono servite.

Un distillato del Bowie più torrido e sexy, senza gli arzigogoli che decoravano il resto della trilogia: la mano di Eno è molto più leggera, e si limita a dirigere le escursioni rumoriste di Belew e ad aggiustare i mix, dando a “Lodger” un feeling ben più ruvido dei due dischi precedenti, un’urgenza furiosa che emerge retrospettivamente dai brani del lato A e torna, prepotentemente, anche dopo i due singoloni, nella conclusiva “Red money”.

A chiudere il cerchio, nell’edizione del ’91, ci pensa poi “I pray, olè”, una splendida coda fatta per far sfogare Belew.

Proprio il chitarrista, in seguito, confesserà di aver avuto una leggera sensazione di anticlimax durante la registrazione di “Lodger”, come se Bowie e Eno avessero già sparato le loro cartucce migliori e chiudessero la loro collaborazione con un disco minore. Allo stesso modo verrà bollato anche dalla critica che, ubriaca della grandeur di “Heroes”, faticherà a trovare il bandolo di questa matassa, sminuendone la bellezza.

Ma, si sa, il tempo è galantuomo, e Lodger diverrà nel tempo oggetto di culto da un lato, e di studio dall’altro: sia i Blur che gli Oasis lo omaggeranno, e sarà l’unica occasione in cui i due “arcirivali” del brit-pop saranno d’accordo su qualche cosa; la critica lo rivaluterà, riconoscendogli quella complessità che ne aveva limitato il successo all’uscita.

“Lodger” è un disco cervellotico, arduo, che potrebbe necessitare di ascolti multipli e di dissezioni accurate per poter essere davvero giudicato, un viaggio fantastico in cui la strada non è chiara ma anzi va trovata seguendo gli indizi sia all’interno delle canzoni, sia negli echi che queste hanno lasciato nella pop music ad esso ispirata. Un disco complicato, e bellissimo.

- Spartaco Ughi

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