mercoledì 8 maggio 2019

Cure: "Three imaginary boys" (1979)

Quarant'anni fa oggi usciva il primo album dei The Cure, "Three imaginary boys". Dotati ancora di una tecnica essenziale, Robert Smith, Michael Dempsey e Lol Tolhurst hanno però le idee chiare, e ci regalano un bellissimo debutto che si impone nel mondo del post punk di fine decennio.




(disco completo disponibile qui:https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_kb8mwZCZdkS1E0y9rpp8gpwnV6Md6-m90)

Ci sono dischi che hanno valore per la loro importanza storica anche oltre i propri meriti: è forse il caso di "Three imaginary boys", LP di debutto degli inglesi Cure, che come tanti album di esordio alterna momenti brillanti e altri meno riusciti. Forse anche per colpa del produttore Chris Parry, che decise sia la tracklist sia l'ordine dei brani anche contro il parere del gruppo.

Il gruppo di Robert Smith ha sicuramente avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del post punk negli anni '80. Smith è giustamente una figura di culto sia come autore sia come chitarrista, anche grazie agli anni passati a supporto di Siouxsie Sioux nelle sue Banshees. "Three imaginary boys" vede Smith guidare alla voce e alla chitarra un classico trio punk, con Michael Dempsey al basso e Lol Tolhurst alla batteria. Le loro capacità musicali sono essenziali, la voce di Smith ancora acerba e impreparata, ma come tutte le persone intelligenti, e i Cure sono un gruppo intelligente, i tre ragazzi hanno una perfetta conoscenza dei propri limiti e sanno usare gli strumenti in modo efficace per creare una affascinante sequenza di canzoni di atmosfera.

Abbastanza creativo e originale da far alzare le sopracciglia nel mondo del post punk, che pure era pieno di gruppi che provavano a dire la loro, "Three imaginary boys" è un ottimo punto di partenza per la carriera di Smith e soci. Parecchie sono le canzoni interessanti, sin dalla prima, "10:15 Saturday Night", commovente nella sua essenzialità musicale quanto vedere disegni che mostrano il potenziale artistico di bambini precoci. C'è la sognante "Another day", canzone in cui Smith usa accordi storpiati da leva e dissonanze e che rappresenta un precedente fondamentale per molte delle migliori canzoni dei Cure. In "Meat Hook", in cui si incontrano post punk e jazz, c'è già il germe che porterà i Cure a "The Lovecats". "So what" è di una ferocia adolescenziale che se la gioca alla grande con qualunque altro pezzo punk o post punk del 1979.

Nonostante la relativa semplicità dei brani, la creatività di Robert Smith alla chitarra è già evidente e la sua crescita come strumentista gli permetterà di esprimere idee che già qui non mancano di generare fascino (si ascolti la tavolozza di suoni impiegati nella title track).

In definitiva, "Three imaginary boys" è davvero un bell'esordio che, a chi sapeva leggere fra le righe, fece capire di che pasta era fatto il gruppo. Gli altri avrebbero dovuto aspettare il singolo "Boys don't cry" (giugno 1979) e l'evoluzione del loro suono nel gothic di "Seventeen Seconds" (1980). Ma questa è un'altra storia.

- Red

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