sabato 6 aprile 2019

Bat for Lashes: "Two Suns" (2009)



Chi scrive ricorda bene di aver letto le recensioni di questo “Two Suns” ai tempi della sua uscita, che lo indicavano come il lavoro accattivante e ricercato firmato da una giovane cantante in rampa di lancio; quell’anno, “Two Suns” riceverà una nomination ai Mercury Prize e persino le lodi di quel simpaticone di Thom Yorke. 

Il primo impatto con l’album faceva solo aumentare le aspettative, con un uno-due introduttivo costitutito da “Glass”, un’epica cavalcata electro-world capace di evidenziare i colori della voce della cantante/titolare del marchio, Natasha Kahn, e “Sleep alone”, vagamente ispirata ai Knife di “Deep cuts” ma certamente più pop e morbida di, diciamo, “Heartbeats”; emozionante senza strafare.

La delusione però era dietro l’angolo: “Two Suns” da qui in avanti mi sembrò una successione di brani di raccordo, riempitivi che continuamente promettevano meraviglie per la traccia successiva, ma solo raramente mantenevano la parola data: tra scimmiottamenti dei Radiohead post-"Ok Computer" (“Travelling Woman”), ballate immobili (“Good love”, la bonus track “Wilderness”) e mid-tempo dalle melodie anemiche (“Two Planets”, anch’esso un brano dei Knife privato delle atmosfere taglienti e sanguinose del duo svedese), a riscattare il disco c’erano relativamente pochi pezzi: esclusi i primi due brani, solo le linee melodiche chiare ed accattivanti del singolone “Daniel”, brano pop à la Depeche Mode (ma più minimalista), e la sperimentazione classica (nel senso di musica classica) di “The Big Sleep”, impreziosita dalla presenza di Scott Walker come ospite d’eccezione, facevano registrare qualche bip sugli strumenti.

Nessuno di questi giudizi è davvero cambiato a distanza di dieci anni. Brani come “Peace of mind” e “Siren Song”, con le loro strutture dinamiche (crescendo gospel il primo, bizzarre transizioni tra ballata e atmosfere cinematiche il secondo) potrebbero impartire un pacing imprevedibile a questo disco, e invece danno la sensazione di dover trascinare il peso eccessivo di una tracklist che sacrifica il songwriting (già di suo non ispiratissimo) sull’altare di un concept cervellotico e pretenzioso, incentrato sul dualismo tra la cantante e un’alter ego biondo e perverso di nome Pearl.

Proprio “Pearl’s Dream”, teorico centro della storia, stiracchia la sua melodia e i suoi riff per far entrare tutto il testo, come se questo non fosse che qualche visione fantasy-onirica dal significato oscuro (e probabilmente irrilevante). Bat for Lashes rimane ancora oggi un nome molto accreditato tra gli addetti ai lavori,avendo racimolato altre due nomination ai Mercury Prize e vantando collaborazioni con band di culto come i Toy, ma il segno lasciato dalla cantante inglese ammonterà, probabilmente, a una manciata di canzoni orecchiabili immerse in un marasma leggermente verboso.

- Spartaco Ughi

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