venerdì 29 marzo 2019

Mogwai: "Come on die young" (1999)



Capita - a volte - di essere perfetti. Di riuscire a condensare in un disco, in un'opera che per forza di cose è contingente e strettamente legata al tempo in cui viene pensata e creata, un goccio di splendore eterno ed universale.
Non crede di esagerare chi scrive queste note nel definire contenuto in questo perimetro l'esordio full length dei Mogwai, "Young Team".
Perfetta, infatti, era in quelle tracce la ricerca costante e precisa della linea di confine tra notte e giorno, tra luce ed ombra.
Linea percorsa con mirabile ed intenso equilibrio, con geometrico intento, magistrale e non sterile esercizio di stile.

Tanto era necessario e vitale quel disco, tanto epidermicamente centrato: e tanti, a due anni di distanza, i temi che il seguito poneva
sul tappeto.

Chiariamo subito: se non è corretto parlare di album deludente - non siamo proprio in quel campo da gioco - sicuramente è doveroso dire che
"Come On Die Young - CODY" è un disco di forte riflessione e di stasi.
Come se, una volta arrivati in vetta, i Mogwai si ponessero il problema di rifiatare, di ridare fuoco alle polveri.
Ed allora, ecco, l'incipit di "Punk Rock": Iggy Pop in sottofondo a dare spessore ad un balbettio musicalmente appena accennato e frammentato.
L'impressione è che l'entrata in scena sia quella di un amico restio e riservato: la title track successiva, suadente e liquida, fa capire che siamo a casa, sì, ma l'atmosfera è diversa dal solito.
Le luci sono basse, siamo davanti ad un bicchiere di vino e stiamo confidandoci.
Delle tracce successive sarà principalmente "Ex-Cowboy" a ripercorrere i classici canoni chitarristici dei ragazzi di Glasgow: forse l'episodio più convenzionale,
infatti, ma sicuramente di impatto.

La tela tessuta dal ragno ("Spiderland" degi Slint risuona potente nelle orecchie di chi ascolta questo disco) è sottile ma fitta e decisa: viene messa in mostra una continuità stilistica che sarà difficile, ad esempio, ritrovare nelle uscite successive.
In questo è apprezzabile la coesione delle tracce, che vanno a comporre in sequenza una suite uniforme ed avvolgente. Colpiscono molti momenti: "Chocky" con il suo incedere sbilenco e tormentato, la melodia di "May Nothing But Happiness..", la dolcezza di "Waltz For Adrian", la consuetudine inquieta di "Help Both Ways".
Non ci sono passaggi che convincono poco, ogni brano acquista il suo senso. Il disco, nota tecnica, acquista molto se ascoltato con la dovuta attenzione ed il dovuto silenzio al contorno; non è sicuramente album da fruizione distratta o disturbata, ché non si coglierebbero molte delle sfumature e dei colori.

Colori sicuramente ricchi, ma resta meno risolta e sfruttata - va detto - la classica dicotomia dei nostri: le esplosioni controllate ( o meno ) che deflagravano in "Young Team" sono meno vistose. E questo forse è un bene, o sicuramente era una necessità all'epoca per smarcarsi da etichette e da clichè.
E quando l'acceleratore è premuto, si veda la catarsi tellurica di "Christmas Step" (qualcuno ha ri-detto Slint?) i giri sono ancora a mille e il cuore batte
fortissimo.
Tutto però è generalmente più soffuso, la pittura è più lieve e le linee meno definite.

Una pausa di riflessione, presa in cima alla collina: ci siamo arrivati con il fiato corto per le emozioni e con l'animo che brucia.
Ma siamo ancora in corsa, non potrebbe essere altrimenti: il sangue scorre, le vene pulsano, l'ombra e la notte ci accompagnano così come i lampi di luce e i tuoni, che scuoton forte le tempie ed il cuore.

- il Compagno Folagra

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