giovedì 21 marzo 2019

James Brown: "Say it loud - I'm black and I'm proud" (1969)

Nel marzo di cinquant'anni fa venne pubblicato un album che fece la storia del soul e del funky, "Say it loud I'm black and I'm proud", a cura di un certo signor James Brown.



Il 7 agosto del 1968, James Brown porta la sua formazione in studio per registrare la canzone che darà il titolo a uno dei suoi migliori album. La canzone, "Say it loud - I'm black and I'm proud", è uno dei momenti fondamentali per la nascita del funky, ed è uno dei grandi classici immortali di James Brown - un testo semplice ma politicamente di impatto immenso, per un disco registrato pochi mesi dopo la morte di Martin Luther King, avvenuta il 4 aprile 1968.

James Brown ebbe immensi dubbi nel decidere di registrarla, con gli attivisti neri che gli mettevano pressione per dare un supporto pubblico alla causa afroamericana, soprattutto dopo gli avvenimenti del 5 aprile 1968. Il giorno dopo la morte di Martin Luther King, infatti, un concerto di Brown a Boston fu trasmesso in chiaro sulle tv locali della città per cercare di abbassare il rischio di violenza nelle strade - Brown accettò di farlo nonostante il sindaco lo contattasse solo a decisione presa e senza consultarlo - nulla di tutto questo si seppe all'epoca.

Il concerto fu un successo, e a Brown fu imposto un doppio ruolo che non desiderava: da un lato, il presidente Lyndon Johnson gli chiese di agire da paciere nelle città che visitava in tour; dall'altra, questo profilo pubblico lo fece apparire come un possibile portavoce dei diritti dei neri.

C'erano molti motivi per cui Brown non lo voleva: innanzitutto, il Soul Brother #1, come era stato soprannominato, era tendenzialmente un repubblicano - era favorevole alla guerra in Vietnam, e in seguito avrebbe appoggiato la candidatura di Nixon alla presidenza. Poi, Brown non era pro-neri, era anti-segregazione, cosa che faceva una differenza nell'America nera delle Black Panther e della Nation of Islam ("I don't like defining anyone by race. To teach race is to teach separatism").

Per uscire dall'impasse, Brown decise di comporre un testo, per la musica del suo sassofonista Alfred Ellis, che cerca di inquadrare il problema secondo il suo taglio, e che avrà un effetto dirompente. Brown vuole semplicemente rimarcare l'orgoglio di essere nero senza contrapporsi in alcun modo a nessuno - quasi a ribadire una cosa ovvia; e sceglie un call-and-response in stile gospel con un coro di bambini dei quartieri neri di Los Angeles per dare un carattere innocente e gioioso all'invocazione.

Ma nell'America dell'agosto 1968, quando esce il singolo, che precede di sei mesi la pubblicazione dell'album omonimo, mostrare orgoglio per essere neri è una dichiarazione profondamente liberatoria per una intera etnia, e allo stesso tempo un messaggio troppo potente per gran parte del pubblico bianco di James Brown. Brown dirà: "The song cost me a lot of my crossover audience. The racial makeup at my concerts was mostly black after that. I don't regret it, though, even if it was misunderstood."

L'album, uscito nel marzo del 1969, non contiene però solo questo brano che è divenuto un classico del rock and roll, campionato all'infinito, e fonte di ispirazione per innumerevoli artisti di colore, da Michael Jackson ai Public Enemy.

Con "I guess I'll have to cry", Brown & Ellis ci mostrano padronanza di arrangiamenti orchestrali sinuosi e avvolgenti. La strumentale "Shades of Brown" serve a regalare un assolo a ognuno dei comprimari del Godfather of Soul, ma in tal senso è un espediente assai gradevole, sulla scia dei lavori di Booker T & the MGs. "Licking Stick" è un altro famosissimo esperimento del neonato funky, guidato da Maceo Parker e dal sinuoso dinamismo di Clyde Stubblefield, uno dei più grandi batteristi soul/funk di sempre, e vede James Brown nel pieno di una delle sue ossessioni sessuali preferite (assieme alle sue divagazioni sul "pop corn" che comparivano con significato sessuale francamente confuso in tanti suoi singoli del periodo, farebbero la felicità di Marco Ferreri).

Sul lato B spiccano "Let them talk", cover di un brano di Sonny Thompson, una deliziosa ballata soul con un notevole arrangiamento fiatistico; e "I'll lose my mind", un delizioso strumentale in cui James Brown dà un saggio delle sue capacità all'organo.

Qualche riempitivo, come il soul fiatistico e verboso di "Goodbye my love", ballad che va avanti decisamente troppo a lungo, o "I love you", una lungaggine sospesa fra ritmato r&b e soul marziale, non rovinano più di tanto l'impatto del disco.

Eccellente album del Godfather of Soul, con brani di soul stellare e un paio di classici immortali del funk ("Say it loud", "Licking Stick"), il disco contiene tutti i migliori elementi del James Brown degli anni sessanta ed è uno degli album essenziali del genere funky tutto e dell'artista nero.

- Prog Fox

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