mercoledì 13 marzo 2019

Grateful Dead: "Aoxomoxoa" (1969)

Nel marzo di cinquant'anni fa vengono concluse anche le registrazioni di "Aoxomoxoa", per molti il capolavoro assoluto della carriera dei Grateful Dead, di solito in lizza con "Anthem of the Sun" dell'anno precedente o con uno dei loro gargantueschi dischi dal vivo, "Live/Dead" (1969) o "Europe 72" (1972).

 

(album disponibile qui: https://www.youtube.com/playlist?list=PL8UfM7ycll7QRbnz6f1FnBMfDcGQSMM22)

Giunti al loro terzo album, i Grateful Dead non hanno fatto che far perdere soldi alla loro casa discografica e non navigano in acque particolarmente stabili. Musicalmente, però, sono al culmine assoluto della propria capacità compositiva, e "Aoxomoxoa" li rappresenta alla perfezione nella dimensione in studio.

L'anno è il 1969 e negli Stati Uniti il country e il folk stanno ormai ritornando a corrodere la psichedelia e il rock, molti gruppi tornano alle radici, da Bob Dylan che va a Nashville alla Band, dai Creedence alle nuove formazioni come i Poco. Anche i Grateful Dead sentono questa influenza, ma non ne vengono fagocitati, bensì si limitano a armonizzarla compiutamente nel loro suono acido, senza rinunciare alle divagazioni strumentali e alle fantasie sperimentali nello studio, anche grazie alla sensibilità del loro chitarrista Jerry Garcia, che ha un robusto background nel folk e nel bluegrass e che aveva insegnato chitarra acustica e banjo.

Garcia è anche, in quello che sarà un unicuum per la carriera trentennale dei Dead, il solo cantante solista di tutte le canzoni dell'album, i cui testi sono tutti scritti dal poeta Robert Hunter. Oltre a Garcia, ci sono i membri fondatori Bill Kreutzmann alla batteria, Phil Lesh al basso, Bob Weir alla chitarra, Ron McKernan all'organo; e i nuovi innesti giunti nel precedente album "Anthem of the Sun", il tastierista e sperimentatore avanguardista Tom Constanten e il secondo batterista Mickey Hart.

Non c'è un pezzo debole in tutto il disco, non c'è un minuto debole in tutto il disco, che inoltre è dominato da un intenso lirismo che ne rende facilmente fruibile l'apparato sperimentale, come nelle massime opere artistiche. Questo era il bello di quando era accettato incidere album che duravano 36 minuti come questo. L'unica eccezione a tale carattere di fruibilità è "What's become of the baby", otto minuti sul lato B, un brano a cappella imbevuto di suoni e rumori, comunque interessante se non vi imbattete nella versione remissata nel 1971: all'epoca i Dead erano entrati nella loro fase roots rock e vollero alleggerire la ristampa di "Aoxomoxoa" con risultati deludenti quantomeno su questa traccia.

Tra i brani più riusciti di un disco di cui non si può che parlare entusiasticamente, ci sono i due intensi, entusiastici pezzi di apertura, "St. Stephen" e "Dupree's Diamond Blues", la tremolante, languida psichedelia di "Rosemary", il capolavoro folk barocco "Mountains of the Moon", abbellita da un delicato tema di clavicembalo di Constanten, la fantasia ritmica e percussiva di "China Chat Sunflower", in cui le chitarre di Garcia e Weir e le percussioni di Hart e Kreutzmann mostrano al meglio la loro complessa capacità di interazione.

"Aoxomoxoa" si gioca con "Anthem of the Sun" il posto come migliore disco in studio dei Grateful Dead, ed è senza ombra di dubbio uno degli album fondamentali del suono psichedelico di San Francisco. Uno degli ultimi grandi dischi della psichedelia americana, prima dell'avvento di una era del tutto nuova negli anni settanta.

- Prog Fox

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