venerdì 15 marzo 2019

Blur: "13" (1999)

Il 15 marzo di vent'anni fa usciva "13", sesto album in studio degli inglesi Blur.
Proseguiva la fuga del gruppo dal suono classico del brit pop anni novanta, in quello che sarebbe stato l'ultimo disco con il chitarrista Graham Coxon prima della sua uscita dalla band nel 2002.



(il disco completo si può trovare qui:https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_lGVp8AWncp9aSJ1peIB-3tnjuEf0UUlWM)

Pensare oggi, col senno di 20 anni dopo, che ci fu un’epoca in cui Albarn e Coxon e i loro Blur venivano messi in competizione con i fratelli Gallagher, fa venire più di un sorriso. Con la prospettiva data dal tempo e da album come questo “13”, non si può non considerare i Blur come un caso a parte della scena rock d’oltremanica, più prossimi ai Radiohead che non al cosiddetto Brit-Pop di cui gli Oasis rappresentano l’espressione più nota. Perché il “Brit-pop” era canzoni di facile presa, temi relativamente superficiali (o assolutamente retorici) e strumenti del rock classico.
Chiunque si discostasse da queste coordinate (che pure ci hanno dato canzoni oggettivamente splendide come, per dirne una sola, “Champagne Supernova”)
commetteva un passo falso, e basti pensare alle pernacchie ricevute dal capolavoro “Dog Man Star” degli Suede per convincersi di ciò.

Però nel 1999 il Brit-pop è morente, e i Blur hanno già intuito la mala-parata due anni prima, quando il loro disco eponimo scaverà un primo fossato tra loro e il resto della scena. Ma il livello di anticonformismo di “Blur” impallidisce quando “13” giunge alle orecchie del pubblico. Per cominciare, arriva il mago dell’elettronica William Orbit a rimpiazzare Stephen Street, il fedele produttore dei precedenti album del quartetto di Londra. Non solo Orbit contribuirà al suono elettronico dell’album, riuscirà ad incanalare le tensioni che agitavano Albarn e Coxon (il primo in crisi terminale con la fidanzata dell’epoca, Justine Frischmann delle Elastica, il secondo semplicemente incazzato col mondo) in un lavoro maturo, elettrico, a tratti persino cupo, che con il suo suono alternativo cementerà la fama dei Blur specialmente in America.

L’aggressività noise-punk di Coxon inonda ogni canzone di feedback, riverberi e distorsioni furibonde, con l’intento neanche troppo velato di romperne il tessuto sonoro. La notevole eccezione è il lungo gospel-pop di “Tender” che apre l’album, che mantiene una certa armonia, e serve il doppio scopo di sorprendere l’ascoltatore con qualcosa di inaspettato, allo stesso tempo non preparandolo a ciò che lo aspetta nel prosieguo del disco. La seguente “Bugman” è decisamente più indicativa: i beat elettronici di marca Orbit sostengono un autentico florilegio di distorsioni rabbiose, ed è probabilmente la canzone più tangente all’hard’n’heavy mai finita su un disco dei Blur. Coxon non si ferma e nella splendida canzone pop di cui firma il testo e la traccia vocale (“Coffee & TV”, di cui certamente ricordate il video col cartone del latte) inserisce un assolo di tagliente rumorismo, che le tastiere di Albarn riescono solo in parte a contenere. Lo stesso dicasi per “1992”, mentre “B.L.U.R.E.M.I.” sono due minuti di punk rock purissimo, vertiginoso, che si sciolgono a tradimento in un sognante assolo di piano elettrico (molte delle tracce dell’album, inclusi i singoli, hanno una coda strumentale estemporanea). La seguente“Battle”, 6 minuti e 30 secondi di jam space-psych-electro-rock, riesce a rendere omogenea la miscela esplosiva dei pezzi precedenti, e rappresenta forse il brano più estremo e sperimentale prodotto da una band “da classifica” negli anni ’90 (sì, includendo le rock-star internazionali Radiohead, coi loro “Ok Computer” e “Kid A”). Capita l’antifona, non è difficile immaginare che “Mellow song” e “Caramel” vengano sporcate dall’onnipresente incazzatura in fuzz di Coxon, che qualche anno dopo confesserà di essersi comportato da testa di cazzo durante le registrazioni di “13” e no, Graham, non siamo stupiti neanche un po’; “Trailerpark” e “Trimm Trabb”, d’altro canto, proseguono sulla scia electro-rock di “1992”. Quando pensi di sapere cosa aspettarti, ecco ritornare le sonorità black ell’opening con un bluesone strappalacrime come “No distance left to run”, in cui Albarn si strappa la pelle di dosso per la fine della sua relazione, e a Coxon non pare vero di poter spargere sale sulle ferite. Il finale psichedelico di “Optigan 1” non fornisce una chiusura, ma anzi lascia tutto sospeso, e paradossalmente non rimaniamo stupiti dopo tutto ciò che abbiamo ascoltato finora.

“13” è l’ultimo album dei Blur in cui figurerà Coxon, che se ne andrà, ovviamente sbattendo la porta, alla vigilia della registrazione del seguente “Think Tank”. A quel punto, però, avrà già fatto conoscere ad Albarn il cartoonist e fumettista Jamie Hewlett, un incontro che getterà le basi per la fondazione di una band costituita da cartoni animati di cui immagino abbiate sentito parlare (quello che forse non sapete è che Hewlett fregherà la fidanzata a Coxon, ovviamente senza alcuna conseguenza sul suo umoreLOL). Ma al di là degli screzi e degli scazzi nella band (Alex James e Dave Rowntree, basso e batteria della band, racconteranno di un’atmosfera tossica ed intimidatoria durante le registrazioni, ma non c’è bisogno di leggere le interviste, basta ascoltare il casino prodotto da questa cazzo di chitarra distorta), “13” è un vero, autentico monumento di rock alternativo, in cui rabbia, intellettualismo e pop si fondono e si amalgamano per generare un disco senza paragoni, una pietra miliare di un certo modo di intendere la musica ed ennesima prova che una band in crisi può fare miracoli.

- Spartaco Ughi

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