Ci sono dischi che potrebbero anche non essere recensiti, tanto chiari e nitidi sono il contesto, le intenzioni ed i risultati.
Come quei regali ancora incartati, ma che già dalla confezione incartata rivelano senza alcun dubbio il loro contenuto.
Oddio, insomma, l'ennesimo pacco di cioccolatini.
Ecco: "Pains Of Being Pure At Heart", self titled dell'omonima band newyorkese del 2009, è in un certo senso perfettamente
assibilabile ad un pacco di cioccolatini.
Diciamolo subito ed in tutta sincerità: il prodotto non entusiasma in pieno, così come non entusiasma ricevere in regalo (soltanto) dolcetti.
Ma, in fondo in fondo, chi davvero sarebbe completamente deluso da un simile cadeaux?
Quindi, stiamo ancora un po' nella metafora forrest-gumpiana, magari senza sfruttarla allo sfinimento ma utilizzandola per descrivere lo zuccheroso (aireccoci) album: vedendo il bicchiere mezzo pieno si può affermare che, come ogni cioccolatino rappresenta una variazione sul tema, i ragazzi newyorkesi riescono
a guarnire (quasi) ogni brano con ricami e richiami a esperienze trascorse.
Qui lo shoegazing alla "Slowdive", qui un accenno ai "My Bloody Valentine", qui un bridge alla "Belle And Sebastian".
Perchè, per entrare nel dettaglio tecnico, il lavoro non ha assolutamente alcun pudore a definirsi derivativo e retrò: fuori dal tempo e
dai luoghi, album più accostabile a decadi passate che alla coeva realtà; e comunque più oltremanica che oltreoceano.
Elettro-pop, shoegazing. Ragazzi carini, dolci ed un po' stralunati che cantano melodie tutte nuove ma tutte già - in qualche modo ed in qualche
tempo - già sentite.
Il track-to-track non ha, qui, moltissimo senso. Si potrebbe evidenziare la vivacità della traccia di apertura, forse l'unica che riesce davvero
ad entrare in un loop duraturo nella testa di chi scrive queste note, così come qualche sussulto nel trittico finale.
Si tratta, per lunghezza e struttura, quasi di un extended-EP: la durata supera di poco la mezz'ora e le singole tracce sono sostanzialmente
uniformi e ascoltabili senza grosse soluzioni di continuità. Un tappeto diffuso e gradevole, senza particolari increspature.
Nessuna sorpresa se per qualcuno - non pochi a giudicare dalle attese e dalle accoglienze dell'epoca - tale mare caramelloso e nostalgico ha
rappresentato un appeal quasi irrinunciabile e ammaliante (e neppure qui, del resto, lo si sta stroncando).
Però ad altri sapori, più sapidi e vari, si è abituati e difficilmente si resterà legati a questo disco: giusto lo spazio di gustare un cioccolatino,
magari prenderne un secondo, ma poi passiamo ad altro, suvvia.
- il Compagno Folagra
Come quei regali ancora incartati, ma che già dalla confezione incartata rivelano senza alcun dubbio il loro contenuto.
Oddio, insomma, l'ennesimo pacco di cioccolatini.
Ecco: "Pains Of Being Pure At Heart", self titled dell'omonima band newyorkese del 2009, è in un certo senso perfettamente
assibilabile ad un pacco di cioccolatini.
Diciamolo subito ed in tutta sincerità: il prodotto non entusiasma in pieno, così come non entusiasma ricevere in regalo (soltanto) dolcetti.
Ma, in fondo in fondo, chi davvero sarebbe completamente deluso da un simile cadeaux?
Quindi, stiamo ancora un po' nella metafora forrest-gumpiana, magari senza sfruttarla allo sfinimento ma utilizzandola per descrivere lo zuccheroso (aireccoci) album: vedendo il bicchiere mezzo pieno si può affermare che, come ogni cioccolatino rappresenta una variazione sul tema, i ragazzi newyorkesi riescono
a guarnire (quasi) ogni brano con ricami e richiami a esperienze trascorse.
Qui lo shoegazing alla "Slowdive", qui un accenno ai "My Bloody Valentine", qui un bridge alla "Belle And Sebastian".
Perchè, per entrare nel dettaglio tecnico, il lavoro non ha assolutamente alcun pudore a definirsi derivativo e retrò: fuori dal tempo e
dai luoghi, album più accostabile a decadi passate che alla coeva realtà; e comunque più oltremanica che oltreoceano.
Elettro-pop, shoegazing. Ragazzi carini, dolci ed un po' stralunati che cantano melodie tutte nuove ma tutte già - in qualche modo ed in qualche
tempo - già sentite.
Il track-to-track non ha, qui, moltissimo senso. Si potrebbe evidenziare la vivacità della traccia di apertura, forse l'unica che riesce davvero
ad entrare in un loop duraturo nella testa di chi scrive queste note, così come qualche sussulto nel trittico finale.
Si tratta, per lunghezza e struttura, quasi di un extended-EP: la durata supera di poco la mezz'ora e le singole tracce sono sostanzialmente
uniformi e ascoltabili senza grosse soluzioni di continuità. Un tappeto diffuso e gradevole, senza particolari increspature.
Nessuna sorpresa se per qualcuno - non pochi a giudicare dalle attese e dalle accoglienze dell'epoca - tale mare caramelloso e nostalgico ha
rappresentato un appeal quasi irrinunciabile e ammaliante (e neppure qui, del resto, lo si sta stroncando).
Però ad altri sapori, più sapidi e vari, si è abituati e difficilmente si resterà legati a questo disco: giusto lo spazio di gustare un cioccolatino,
magari prenderne un secondo, ma poi passiamo ad altro, suvvia.
- il Compagno Folagra
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