giovedì 10 gennaio 2019

Lou Reed: "New York" (1989)

Il 10 gennaio di trent'anni fa usciva "New York", considerato da molti critici uno dei migliori album della carriera di Lou Reed.



(il disco completo si trova qui:https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_kYhjA-IUiY-vlamWW1yEz8VEjSQPkdfP4)

"New York" è il quindicesimo disco in studio del signor Lou Reed, ed è un gran bel disco, non c'è dubbio. Anche se soffre la colpa non sua di essere l'ennesimo disco di comeback di un artista famoso, di quelli che hanno scollinato la fase giovane, ribelle e di successo della carriera, sono state vittime di droghe, alcol e declino di popolarità, poi trasfigurano da dinosauri a icone e a quel punto sono riscoperti, come se non avessero spaccato il culo pure prima.

Dal 1986 di "Mistrial", con la celeberrima "No money down", al 1989 di "New York", con la celeberrima "Romeo had Juliet", cosa è cambiato? È cambiato Lou Reed? Non credo proprio. È cambiato il clima musicale e anche nei gusti del pubblico americano si erano ritornate ad ascoltare le chitarre, grazie al lungo lavoro ai fianchi di gruppi college rock come i R.E.M. e della vasta platea di heavy metal capellone. Lou Reed così tornava popolare e non a caso proprio mentre nasceva il grunge a Seattle.

Più o meno tutti i critici sono concordi quindi nel definirlo un ritorno trionfale, quando Lou Reed non doveva tornare da una cazzo di nessuna parte, erano i critici che dovevano tornare ad ascoltarlo; e più o meno tutti i critici sono concordi nel dire che le canzoni migliori sono la prima e la seconda, cioè "Romeo had Juliet" e "Halloween Parade" - ma questo significa solo che hanno ascoltato quelle due prima di scrivere le loro fottute recensioni.

L'album infatti non è recensibile secondo il solito modello rock in cui si mescolano canzoni più acchiappone ad altre più difficili e quindi ci sono sempre uno o due highlights che spesso sono il singolo di successo: Reed, e ci tiene a dirlo nelle note di copertina, fa un disco che mantiene una atmosfera molto simile per tutta la sua durata, con una produzione davvero minimale e rozza da parte del batterista Fred Maher (John Mellencamp la definì degna di un ragazzino di terza media), che fa risaltare la chitarra graffiante di Mike Rathke e il brillante contrabbasso elettrico di Rob Wasserman; e sceglie questa strada perché "New York" tratta di una 'storia' (non proprio ma ok) che dovrebbe essere sentita dall'inizio alla fine senza focalizzarsi su una singola canzone.

Questo sicuramente fornisce una unità che è un pregio ma ha anche il difetto di rendere un po' monotono l'album (anche se livellato verso l'alto), che spiega poi perché i critici parlassero dei primi due brani come migliori e perché probabilmente non abbiano mai finito il primo lato.

Ma voi fate meglio dei critici: arrivate fino alla fine, perché il disco spacca. Di brutto.

- Red

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