(disco completo disponibile qui:https://www.youtube.com/
A poco più di un anno dal precedente full-lenght, il gruppo dà un taglio netto al proprio passato, scrollandosi di dosso l’etichetta non solo di gothster ma anche di gruppo metal: sperimentare, azzardare, evolversi sono le parole d’ordine per i The Gathering del nuovo corso. Merito anche del produttore Attie Bauw, con cui la band si chiuse in studio (in due studi diversi, nei dintorni di Amsterdam, in realtà, sfruttando nuove tecniche di registrazione avanguardistiche adoperando software ProTools di nuova generazione) per quattro mesi a lavorare al nuovo materiale, aiutandoli a forgiare la loro nuova identità.
Il gruppo che proponeva quel personalissimo e sublime gothic onirico che avevamo imparato a conoscere e apprezzare con il superbo "Mandylion" e con il validissimo "Nighttime Birds" non esiste più, ma viene rimpiazzato con una loro versione anche migliore.
Perso il secondo chitarrista Jelmer Wiersma, i The Gathering non lo sostituiscono, confermano il resto della lineup in toto e rimangono con una formazione a cinque elementi: il chitarrista e polistrumentistaRené Rutten Producer and Mastering, il quale prende in mano le redini del gruppo diventando il principale songwriter, Frank Boeijen (Official) alle tastiere e synth, il cui contributo all’interno dell’alchimia delle composizioni incrementerà esponenzialmente, Hugo Prinsen Geerlins al basso, e il batterista Hans Rutten, fratello di René. E poi c’è lei, l’incantevole, magnifica, splendida, meravigliosaAnneke Van Giersbergen, che mette a disposizione del gruppo la sua ammaliante e celestiale voce.
Okay, questo allora non è un disco metal, cosa aspettarsi quindi da "How to Measure a Planet"? Quello che il gruppo ora propone (e sperimenta) è una miscela di alternative rock, space rock e progressive psichedelico, colorato con suggestive tinte di trip-hop e shoegaze.
Il primo cd si apre con "Frail (You Might as Well Be Me)", canzone in slow motion dall’umore rilassante e lievemente malinconico, se non fosse per l’inconfondibile timbro di Anneke non ci sarebbe quasi nessuna reminiscenza dei vecchi The Gathering. Ci troviamo di fronte a un bel pezzo, indubbiamente, ma paradossalmente è uno dei meno validi di questo magnifico album.
La seguente "Great Ocean Road", in assoluto uno dei pezzi più belli del gruppo olandese, gode di un’atmosfera evocativa e emozionante condotta dalle magiche vibrazioni delle corde vocali di Anneke, in cui confluiscono tutte le influenze che vi abbiamo prima descritto. Il viaggio in direzione del cosmo profondo è iniziato da poco, ma siamo già proiettati verso le soglie del capolavoro.
La soffusa "Rescue Me" mostra il lato più romantico e poetico del gruppo, merito soprattutto dell’imprescindibile cantante, qua impegnata in una prestazione emotivamente molto intensa, e forse, per non apparire troppo smielato, a metà il gruppo interrompe il climax del pezzo con un’impetuosa digressione spazio-psichedelica, per poi dopo due minuti di turbolenze tornare sulle placide coordinate dolci/amare iniziali.
Il dualismo di mood di "Rescue Me" è riscontrabile anche in "Travel", altra vetta siderale del lavoro, altra composizione di livello eccelso e ennesima dimostrazione di profonda creatività. Memorabile il pacato (e semplice) riff portante, Anneke, divina come sempre (anche se, da sempre, limitata in fatto di estensione, ma vista la sua impostazione canora non lo considereremo mai un difetto), alterna tonalità vocali differenti, tornando anche a viaggiare su note alte come nel recente passato.
A contrastare il clima tendenzialmente rilassato del disco ci pensa "Liberty Bell", ennesima prova fenomenale del gruppo, pezzo bello ritmato dotato di un bel tiro e costruito su linee vocali davvero accattivanti, ottimo per far saltellare un po’ il proprio pubblico dal vivo e non lasciare che le gambe si atrofizzino, non a caso fu scelto per girare il primo videoclip dei The Gathering. Scontato dirlo, nel video Anneke (che all’epoca sfoggiava una coiffure rasta biondissima) appare dentro una capsula spaziale indossando una tuta blu da astronauta. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una delle migliori canzoni di sempre del quintetto olandese.
Ma buona parte di "How to Measure a Planet?" sembra più un greatest hits che un album (ops, doppio album, scusate) da studio, anche le varie "Red Is a Slow Colour", "The Big Sleep" e la maestosa "Probably Built in the Fifties" sono composizioni di gran classe capaci di entrare visceralmente nella testa dell’ascoltatore.
In mezzo a tutti questi pezzi memorabili si rischia quasi di tralasciarne uno del calibro di "Marooned", che fa coppia con "Rescue Me" in quanto a catalizzatore di emozioni a profusione.
"My Electricity" e "Locked Away" sono gli unici due brani che portano la firma interamente di Anneke Van Giersbergen (e fra quelli del piatto sono quelli che stilisticamente si avvicinano alla direzione intrapresa con "Souvenirs" e "Home", gli ultimi due album incisi da Anneke con i The Gathering), da qui ebbe inizio la sua carriera in plus di autrice e chitarrista, a cui si dedicò a tempo pieno nove anni dopo l’uscita di questo disco in seguito alla sua separazione dal gruppo.
Il tastierista Boeijen dimostra di aver bene assimilato la lezione dei Pink Floyd e King Crimson nella strumentale "South American Ghost Ride", pezzo che apre il secondo cd, che si chiude con la lunghissima (quasi mezz’ora) title track, altra strumentale pregna di spaziale psichedelia assemblata a sei mani da René Rutten, Geerlins e lo stesso Boijen.
Due cd per centocinque minuti che scorrono via che è una bellezza. L’apice di un gruppo che non ha mai commesso passi falsi o lavori che non fossero degni d’interesse (i primi due album della loro carriera, quelli doomeggianti e troppo anonimi, senza Anneke, non vogliamo nemmeno considerarli). Eppure all’epoca le vendite fuorono scarse, e la risposta dei fan e di coloro che erano abituati ad ascoltare quei The Gathering che suonavano gothic fu freddina. Ci volle un po’ di tempo prima che "How to Measure a Planet?" diventasse un cult, nel 1998 la propensione a digerire tali radicali cambi stilistici con conseguente demetalizzazione di un gruppo non era propriamente così favorevole verso chi provava a innovare e a non focalizzarsi sempre verso la stessa direzione stilistica. Ma ad oggi, possiamo dire con decisione che si tratta del miglior lavoro del gruppo, anche più di quel "Mandylion" che ce li consacrò e che ci fece conoscere Anneke Van Giersbergen.
Quindi, non ci resta altro che inserire il disco, prepararsi per il lancio, attivare il countdown, e goderci questa visita accompagnata oltre la stratosfera e diretta verso l’onirico.
- Supergiovane
Nessun commento:
Posta un commento