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Non esiste una sola persona con un milligrammo di cervello che possa arrivare a sostenere seriamente l’argomento dell’oggettività delle recensioni: il recensore è un essere umano, con umori e preferenze, che usa la terza persona singolare (“chi scrive”) per dare un senso di distanza, di imparzialità. Ma io, signori, non posso, non questa volta, non con questo disco, perchè qui i Muse sono una questione personale. Sin da quando, uno sproposito di anni fa, il giovane me alla ricerca di nuovi stimoli musicali inciampò sul video di “Newborn” (“alla posizione numero uno della RockChart di MTV per la seconda settimana di fila”, dichiarava Paola Maugeri appena dopo che io mi sintonizzassi) e si fece spettinare l’anima per sempre.
Li ho visti live plurime volte, ho tutti i loro dischi e DVD in originale ("Origin of Simmetry" in duplice copia), t-shirts, posters, e almeno una dozzina di amici che ho molestato abbastanza a lungo perché accettassero di ascoltarli, venendone ammaliati a loro volta. Una storia d’amore lunga un decennio, della quale chi mi conosce sa tutto o quasi (molti probabilmente preferirebbero saperne meno), un romance spezzato improvvisamente da quell’orribile incidente aereo chiamato “The second law” e legalmente dichiarato morto dal suo quasi altrettanto tremendo seguito “Drones”. Quale migliore occasione, per portare a termine il mio definitivo approdo al cinismo dell’età adulta, che una sadica autopsia ante-mortem del nuovo album del trio? Quale migliore catarsi?
Lo so, lo so, schiaffeggiare Matthew Bellamy con un sarago surgelato sarebbe anche meglio, ma purtroppo non ho il suo indirizzo. Con questo voglio dire, con tutta l’umiltà del caso, che io so di cosa parlo quando parlo di Muse, e se tu, caro lettore, non sei d’accordo con me, è perché probabilmente sei un po’ stupidotto.
Il conto alla rovescia “Ah, come sarà semplice questo lavoro di distruzione” pensavo un paio di mesetti fa,quando già quattro singoli erano stati estratti da questo “Simulation Theory” e tutto sembrava volgere al meglio per i miei piani, cioè al peggio. L’estetica synth-wave già così vecchia, così 2016, con la copertina creata dall’artista che ha fatto i poster di “Stranger Things”; “Dig down” che era un clone di “Madness” (che è come fare un clone di Rocco Buttiglione); “Dark Side” e “Thought contagion” così stupidine, e finalmente la versione Muse-esca di Despacito che tutti aspettavamo: “Something Human”.
Ah! come ero pronto! Ah! Come pregustavo il piacere sadico della demolizione mentre lasciavo intenzionalmente arrugginire i miei coltelli meno affilati.
Tuttavia, per non perdere del tutto il mio rispetto per me stesso a livello professionale, e far sì che i generosi emolumenti a me erogati da C’era una volta il rock non fossero del tutto rubati, mi sono seduto, a poche settimane dall’uscita di “Simulation Theory”, per rivedere tutti i video con particolare attenzione. E un dubbio,un orribile strisciante dubbio, si è fatto strada dentro me. Perché, vedete, i Muse hanno sempre avuto un gusto e un talento particolare per i videoclip, almeno fino a “The Resistance”, ma mai dopo “Origin of Simmetry” avevano saputo costruire una narrativa unitaria con essi. Mai fino ad oggi, perché i quattro videoclip succitati condividono un’estetica e uno stile, ma anche un universo narrativo coerente. Un universo cartoonesco, certo, ma capace di restituire un piano complessivo, quasi, come dire - oh cielo - un’idea. Riascoltando “Something Human”mi colpisce, certo, il suo sbracare nel pop commerciale radiofonico senza precedenti nella discografia di Bellamy e soci, ma anche l’ingenua sincerità con cui il cantante e autore parla della distanza da casa, dell’alienazione provocata da tour mastodontici -a supporto di dischi di merda prodotti per solo obbligo contrattuale e non per dire qualcosa di ispirato, aggiungo io. Nel testo di “Thought Contagion” emerge una certa attenzione per la teoria memetica, una canzone tutto sommato solida, oltreché un omaggio ai videoclip funk-pop anni ’80 contenenti musical e zombie (ehm). Ah, e c’è “Dark Side”, che certo sembra basata sugli accordi di “Space Dementia” e le melodie vocali di “Sing for Absolution”, ma dona ad entrambi un po’ di nuova linfa grazie ad una produzione minimalista (per gli standard della band). E anche se è di fatto una nuova incarnazione di “Madness”, “Dig Down” è certamente più viva, più vivida, e ne esiste anche una versione gospel che suona un po’ Primal Scream. E quindi di queste quattro nuove canzoni non ne trovo una che mi disgusti davvero, una volta ascoltate con un minimo di attenzione (per controprova e scrupolo di coscienza ho riascoltato anche gli ultimi due album, per verificare che le mie papille gustative siano ancora funzionanti, e dopo un’attenta leccata posso ancora garantire che sono due album di merda).
Ed è a questo punto che esce “Pressure”, quinto e ultimo singolo di lancio. E non solo i Muse tornano alle loro radici, venendo annunciati nel videoclip con il loro vecchio nome di “Rocket Baby Dolls”, ma lo fanno per una canzone di guitar rock quasi alla Jack White, anche se il ritornello non riesce a fare a meno di ricordarci che“Neutron star collision” è esistita (piccola immagine subliminale di Edward Cullen o come cazzo si chiama).
Ma l’ironia butta tutto in caciara, e sembra quasi che i Muse ci chiedano di non prendere “Simulation Theory” del tutto sul serio, di considerarlo un divertissement, un gioco da valutare secondo i suoi meriti, non guardando a ciò che è avvenuto nei solchi di dischi vecchi quasi (o ben più di) dieci anni.
La recensione vera e propria
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E il disco parte benone, in effetti, con un synth-wave-rock che sfuma in atmosfere e melodie tardo-floydiane, scale di pianoforte e archi sintetici, e ok, il testo è scemo, ma di testi memorabili Bellamy ne ha scritti pochi da quando ha smesso coi funghi allucinogeni nel 2001: questa “Algorithm” funziona.
A seguire la già discussa “Dark Side”, che trasporta le atmosfere e i falsetti dei vecchi Muse in ambienti synth-rock con risultati più che positivi, e oltretutto ha un bell’assolo di synth-guitar. Ed eccoci a “Pressure”, che come un cagnolone eccitato alla vista del mare che corre a perdifiato abbaiando di gioia un po’ ci emoziona, e un po’ ci fa pensare al famoso detto “beata ignoranza”.
Una partenza davvero positiva, sussurro a me stesso all’orecchio, e non faccio in tempo a mettere il punto alla frase precedente che ci si va a schiantare su un muro a forma di momento di imbarazzo: perché abbiamo già scritto sopra del piccolo omaggio ai video di funk-pop con zombie ballerini, ma a questa “Propaganda” basta mettere un assolo di chitarra come si deve, togliergli i “propropropropaganda” in beatbox et voilà, abbiamo “Kiss” di Prince. Pari pari. E già clonare “The gash” dei Flaming Lips per farne il tuo stupido, stupido inno delle olimpiadi è discutibile, ma qui stai clonando “Kiss” di Prince, Matthew Bellamy. Cosa ti passa per la testa? Vabbè, passiamo oltre, ché sento la voce del sarago che mi chiama dal freezer e devo resistere la tentazione.
Oh, “Break it to me” è interessante, se non altro perchè ha un riff di chitarra molto anni ’90. Mi ricorda un po’ il Bowie industrial rock di “Outside” e un po’ i Deftones (sa Dio perché), e benché un po’ statica è comunque un buon pezzo rock. E anche “Something Human”, più la ascolto e più mi entra in testa, e certo è un po’ tanto un earworm, ma di nuovo, la sentite questa sincerità? La sentite la voglia di Bellamy di levarsi dalle palle e di mettersi sul divano a guardare serie TV con la sua donna invece di rompersi i maroni negli stadi di mezzo mondo? Ma soprattutto, lo sentite il suo tenerissimo, ridicolo accento del Devonshire? “I blew it all UP”. Cielo. Anche Thought Contagion, un giro di basso un po’ in grazia di Dio ed un senso di urgenza, e gli oooh-oooh da stadio che saran tamarri ma comunque ci stanno, e insomma sarà radiofonicissima ma mi diverte.“Get up and fight”, uhm, parte un po’ “Metronomy”, sintetizzatorini e produzione minimalista, ma tu pensa un po’ - come non detto, il ritornello esplode in chitarroni su urla disperate, e ok dice “with or without you” e ricorda appena appena gli U2, ma tutto sommato anche qui c’è il sound, il feeling dei vecchi Muse in forme nuove e non del tutto brutte e stupide, ma tu pensa. Lo stesso si può dire di “Blockades”, che riprende almeno un paio di canzoni di “The Resistance” (che anche a un decennio di distanza rimane un ottimo disco, giusto? Prima mi date risposta affermativa e prima smetto di agitare questo coltellaccio, dai su, veniamoci incontro), e ha anche un assolo, i cambi di tempo giusti, e soprattutto dura meno di quattro minuti e non annoia. Ora che ci penso, e guardo la tracklist che volge al termine, noto che solo tre canzoni superano i 4 minuti di durata, e una sola supera i 4:30, e ripensando ai 12 minuti della “suite” (gesù) “The second law”, o peggio ancora agli undici minuti per 3 accordi di “The globalist”, un po’ tiro un sospiro di sollievo.
Mentre scrivevo tutto ciò, i 3:48 minuti di “Dig Down” scorrevano lisci, un altro brano piacevole e catartico al punto giusto, e oltretutto realizzo solo ora che il video continua la storia del video di “Mercy” dall’album precedente, l’unico pezzo salvabile dei Muse anni ’10, almeno finora, ma tu pensa.
E siamo così al gran finale, “The Void”, 4:44 minuti di synth-wave-rock come l’incipit, un po Ultravox e un po’ Depeche Mode. Passabile, tagliamola corta. Void?Parliamoci chiaro: dire che quest’album è superiore ai due precedenti sarebbe come dire che qualcuno è meno crudele di Joseph Mengele, quindi lo diamo per assodato,e aiutatemi a dire “grazie al cazzo”. Allo stesso tempo, paragonarlo ai periodi precedenti dei Muse sarebbe ingiusto e anche un po’ stronzo. “Origin of Simmetry” è una pietra miliare con pochi paragoni, che probabilmente avrebbe meritato anche più di quel che ha ricevuto (per esempio, avrebbe meritato di essere pubblicato in America nel 2001, e non quattro anni dopo perchè la label americana non apprezzava il falsetto di Bellamy. Cosa sarebbe successo alla storia del Rock se OoS fosse arrivato quando era il momento? A volte me lo chiedo, la sera, quando dimentico di prendere le mie pilloline - aspè, di cosa stavo parlando?), e anche i suoi pur controversi séguiti usciti negli anni ’00 contengono una scintilla creativa, un’ispirazione, un’urgenza, che fanno impallidire “Simulation Theory”: quest’album è e resta piacevole, ok, anche divertente, ullallà, certamente onesto, udite udite, ma è un po’ plastificato e non particolarmente vivo. Metà dei testi potrebbero tranquillamente venire sostituiti da un generatore automatico di sproloqui di Alberto Ferrari senza ridurre la portata poetica dei rispettivi brani, e l’altra metà colpisce me perché sono gli sproloqui di Bellamy, che mi fanno pensare ai bei tempi in cui non avevo ancora capelli bianchi e speravo in un mondo migliore, ma non sono di per sè indimenticabili.
Quali conclusioni trarre, dunque, dal fatto che “Simulation Theory” è un disco più che passabile e i miei coltellacci arrugginiti giacciono inutilizzati? Innanzitutto, specie nel caso Matthew Bellamy mi stia leggendo, voglio dire innanzitutto che è molto sorprendente che tu mi legga, Matt, ma ancora più
importante è che tu sappia che la mossa synth-wave è monouso: puoi scordarti già da ora di cavarne più di quel che ne hai cavato con quest’album, perché una singola mano di vernice e un paio di mezze idee non bastano a nascondere l’inaridimento della tua vena creativa, che è ormai assodato (e già che ci siamo: anche io una volta suonando a caso su un piano sono arrivato allo stesso giro di accordi di “The scientist” dei Coldplay. Succede di reinventare la ruota, e tu non sei più autorizzato di me a usarlo pari pari. Quindi nel prossimo disco, per cortesia, niente cover travestite da brani originali, specie se la cover in questione è KISS di PRINCE, per l’amor di Cristo). La produzione di ogni brano singolarmente, invece del solito presuntuosissimo trattamento da concept album, unita ad un pool di produttori artistici armati di taser, pronti a utilizzarli ogni volta che cercavi di dilatare qualche brano con una delle tue boriose stronzate, ha sortito un effetto positivo, perché quello che ho appena (ri-)ascoltato è un disco compatto, con poco o niente di superfluo o fuori posto. A me, invece, rimane un leggero amaro in bocca, nell’ascoltare un disco di puro mestiere prodotto da quella che una volta era non solo la mia band preferita, ma anche la migliore rockband del mondo, capace di coniugare creatività e successo commerciale perlomeno durante tutti gli anni ’00 (ricordatevi il coltellaccio, gente. Shhhh).
Il tempo passa, i capelli imbiancano, e le cose magari sono andate tutt’altro che male (sia a me che a Bellamy), ma si finisce per scoprire di non essere riusciti a soddisfare tutte le ambizioni che abbiamo amorevolmente nutrito durante i nostri anni d’oro. E pazienza che quelle ambizioni non fossero realistiche, ci avevamo creduto, ci credevamo sovrumani e invece siamo qui a contare le ore che ci separano dalla prossima pausa da un lavoro che amiamo ma che comunque è un lavoro (e quindi vaffanculo, che rottura di coglioni), una pausa durante la quale potremo riconnetterci per un momento con qualcosa di umano. Se non altro, scopro con questo disco di avere ancora un qualche tipo di connessione emotiva con Matthew Bellamy, e di conseguenza, forse, chissà anche con quel giovane me che così devotamente lo ascoltava. E se volevate una chiusa che non lasciasse così tanto in sospeso - bè, l’avrei preferita anche io.
- Spartaco Ughi
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