Il 18 novembre di trent'anni fa usciva "Kings of Metal", sesto album dei tamarrissimi metallari americani MANOWAR e ultimo dei loro dischi classici.
Impossibile recensire seriamente questa band, come impossibile è sapere fino a che punto il loro metal da biker e palestrati si prenda sul serio oppure no (la presenza di Ross The Boss dei Dictators alla chitarra lascia da sempre qualche dubbio a riguardo).
(disco completo disponibile qui:https://www.youtube.com/ playlist?list=OLAK5uy_n2BQR TBaqRNLWSNpHw1PELJE2P9xVT5 yA)
Tre decadi orsono i gloriosi Manowar, da oltre 35 anni sovrani incontrastati del culto del vero metallo, consegnavano al mondo il loro sesto album da studio, Kings of Metal, da molti (divinità norrene comprese) considerato il loro capolavoro. Avvertenze per l’uso: si tratta di un album di incontaminato true metal purissimo al 100%, potenziato ad alto voltaggio di decibel-watt. Per la salute dei vostri timpani, prestare attenzione e maneggiare con cura. Tenere lontano dalla portata dei poser.
Era l’anno di grazia 1988, durante l’arco degli eighties il metal era stato consacrato genere supremo dell’universo conosciuto e questo grazie a una serie di capolavori assoluti inossidabili, eppure sul finire di quegli anni per il metal comincerà un periodo di crisi determinato sia dal calo di ispirazione dei gruppi fondamentali, sia dall’avanzata di forze oscure che da un paio d’anni hanno cominciato a insinuarsi come virus nel mondo della musica mettendo a repentaglio la popolarità del vero metallo: stiamo parlando dei poser.
Fricchettoni imbellettati, musicisti sgangherati, inutili cantanti di notti brave sciagurate, nuovi protagonisti, groupies rampanti, rammolliti mezze calze, feroci produttori di canzoni da mtv false, che hanno spesso fatto del poserismo un’arte, coraggio libertini buttate giù le carte! Un affronto intollerabile verso i puristi del vero metallo. Serviva un’ondata che come uno tsunami spazzasse via tutti questi gruppi sdolcinati che propinavano singoli patinati fm-friendly da alta classifica. Serviva qualcuno che rappresentasse l’archetipo del metallaro irreprensibile, qualcuno che facesse valere i principi di forza, onore, coraggio, ribellione, lealtà su cui fondava il metal, qualcuno che potesse fondere questi principi alla mitologia nordica, ispirandosi alla rude epicità dei racconti di Robert E. Howard. In poche parole, serviva qualcuno che potesse incarnare lo spirito del dio del tuono. E del dio del metallo, se mai fosse stato inventato. E chi meglio di due buzzurri italoamericani del Bronx, Joey DeMaio e Eric Adams (all’anagrafe Louis Marullo), potrebbe vestire i panni (o meglio, i mutandoni pelosi alla Conan il Barbaro) di defender del vero metallo evocando alla perfezione l’intrepido guerriero le cui gesta vengono decantate nella mitologia vichinga? Con loro, rispondono alla chiamata alle armi anche il prode chitarrista Ross The Boss, compagno delle mille battaglie fin lì sostenute, e il fedele scudiero Scott Columbus dietro le pelli.
Ha così inizio la loro più dura battaglia, quella contro la crescente orda dei poser, la piaga di mtv e i malvagi producer che sotto coercizione tentano di convertire i gruppi metal facendoli diventare dei poser. "Kings of Metal" è il loro personale Ragnarok.
“Quando il nostro produttore ci chiese di scrivere ballate rock gli dissi che non aveva proprio capito un cazzo della nostra musica, e non esitai a mandarlo a fare in culo”. Così DeMaio si pronunciò. Nessuno doveva azzardarsi a contaminare la purezza del metallo. Dai Manowar nient’altro sentirete se non puro, duro, epico, cazzuto heavy metal sparato a palla senza compromessi. Appena metterete nello stereo il cd, verrete accolti dal roboante ruggito di una marmitta infuocata, dopo non ci sarà il matusa Abatantuono lamentarsi “Mi arriva il primo fesso con la moto a scureggietta e mi sveglia” (in caso contrario allora avete sbagliato cd), ma partirà il cazzutissimo attacco di "Wheels of Fire", powercavalcata metallica capace di far salire il testosterone a mille anche al meno true dei metallari. Tuoni, fulmini, saette, doppia cassa a ciocco, l’ugola di Adams e la chitarra di Ross the Boss che stridono che è una bellezza, il tutto condotto dal basso divino di sua maestà Joey. Puro metallo. Un sentito omaggio verso i fedeli amici biker, veri metallari, "if you are not into metal you are not my friend". Le sgasate e le sgommate poste in outro sono tutte dedicate a loro.
Senza dubbio un buon modo per aprire le danze, ma bando alle ciance, chi conosce i Manowar sa già bene qual è il pezzo forte di "Kings of Metal": stiamo ovviamente parlando della mitica "Hail and Kill". Se provassimo a cercare la definizione della parola “epicità” sul dizionario, troveremmo testo e descrizione per filo e per segno di questa epica composizione. Chiunque sia ben stato indottrinato ad adorare il metallo non può non conoscerla a memoria. La struttura del pezzo rimanda alla celebre "Hallowed by thy Name" degli Iron, fraseggi metallici introducono una serie di arpeggi che accompagnano Marul…ehm, Adams che nelle vesti di menestrello con tono solenne narra le gesta di un manipolo di cavalieri che si apprestano ad affrontare una sanguinosa battaglia guidati dal loro leader, nato e cresciuto in una foresta,e allevato dai lupi. Quanta fottuta epicità in tutto ciò. Terminata la quiete prima della tempesta, si parte all’attacco. Ross the Boss e DeMaio erigono una sezione ritmica affilata come Excalibur e potente come il martello di Thor, impreziosita dalla rapsodia solista prodotta dalla sei corde di Ross. Adams, degno erede al trono di Ian Gillan nella dinastia degli screamers, sforna una performance leggendaria fatta di vocalizzi evocativi e taglienti grida lancinanti, convergendo nel più anthemico refrain della storia del metal. "Hail! Hail! Hail & Kill!!!" Il punto massimo di epicità viene raggiunto quando la schiera di trve defender intona in coro questi versi. Se a questo punto non avete l’adrenalina che vi scorre impazzita nelle vene , non siete degni di essere veri metallari. "Heavy Metal or no Metal at all, whimps and posers LEAVE THE HALL!!"
La forza dei Manowar sta anche nel sapere scrivere ballad suggestive dal forte sapore epico e leggendario, "The Crown and the Ring (Lament of the Kings)" e "Heart of Steel" sono qui a testimoniarlo. Spendiamoci due parole a riguardo. La prima è stata registrata all’interno della cattedrale St.Paul a Birmingham, sorretta da un’imponente sezione orchestrale a cui si aggiunge l’organo (suonato da Ross the Boss), con il contributo del Canoldir Male Choir, coro che dona estrema maestosità a un pezzo già di per sé evocativo a livelli siderali, del resto, non è mai stato un mistero di come la solennità di Wagner e della musica classica abbia sempre ispirato DeMaio e compagnia d’armi. Una sorta di preghiera e atto di devozione verso Odino, canzone che per i fan ha un valore religioso.
"Heart of Steel" invece è una struggente ballad metà pianistica improntata sulla sofferta e valorosa interpretazione di Mar…ehm, cioè Adams (accidenti, non ce la posso fare…). Niente smancerie o melodie ruffiane, solo tanta malinconica e solenne epicità. Gruppuncoli di poser, prendete esempio, è così che si scrivono le ballate metal, le vostre smielate paccottiglie patinate tenetevele per voi, finocchi! DEATH TO FALSE METAL!!!
Bene è ricordare che King DeMaio è il principale compositore della band, non può certo mancare il momento a lui dedicato: "Sting of the Bumblebee", una sua personale rivisitazione del "Volo del Calabrone" di Nikolai Andreyevich Rimsky-Koskarov, in cui il buon Joey macina note su note con il suo basso (ma si può considerare davvero un basso?) customizzato a proprio piacere (che come il martello di Thor, nessun altro è degno di impugnare).
La rivista Guitar World osò classificarlo al nono posto come peggior solo di tutti i tempi, un affronto che questi eretici infedeli pagheranno a caro prezzo quando la furia di Odino si abbaterà su loro polverizzandoli in microscopiche particelle.
Già dal precedente "Fighting the World" i Manowar hanno sperimentato composizioni più catchy, pur mantenendo inalterato il loro livello di epicità, "Kingdom Come" si muove in questa direzione, l’approccio è certamente più armonico e immediato rispetto ai loro standard, ne viene fuori un mid-tempo accattivante e esaltante, in cui si esalta soprattutto Ross the Boss con riff elettrizzanti e un assolo melodico e sublime. Anche la title-track si segnala per essere un pezzo decisamente acchiappante spingendosi verso sonorità a cavallo fra il metal e l’hard rock mostrando un certo flavour scanzonato e festaiolo, tendenzialmente vicino allo stile dei primi Motley Crue e al Glam più ruvido, i Manowar possono permetterselo, senza passare per poser. Other bands play, MANOWAR KILL!!
Nel disco è presente anche "Pleasure Slave", brano non presente nell’edizione in vinile ma ripescato per il formato compact disc. Ebbene, all’epoca scatenò parecchie polemiche per il contenuto del testo ritenudo spudoratamente sessista. Prima, molto prima di Trump e Weinstein, toccò al buon DeMaio venire accusato di ciò, eppure l’intento era esattamente l’opposto, "Pleasure Slave" narra di donne insoddisfatte del proprio marito che si emancipano rompendo il giuramento di eterna fedeltà per concedersi sessualmente al guerriero più valoroso (cioè DeMaio) soddisfacendo i suoi meritati piaceri al ritorno dal campo di battaglia. Il pezzo rimanda alle atmosfere rapsodiche e cadenzate del periodo di "Into Glory Ride" e "Sign of the Hammer", accompagnate dai gemiti e urletti di piacere di donzelle in estasi ormonale.
"The Warrior’s Prayer", intermezzo recitato, vede protagonista un ragazzino che chiede al nonno di raccontargli una storia prima di addormentarsi, non un racconto di fantasia, una storia vera, e il nonno lo accontenta narrandogli delle eroiche gesta di quattro impavidi guerrieri, di cui egli stesso faceva parte da giovane. “Chi erano i quattro guerrieri nonno?” chiede esaltato il ragazzino alla fine della storia: “I re del metallo!!” è l’orgogliosa, piena di enfasi risposta del nonno.
Chiude l’album dei re del metallo "Blood of the Kings", epica cavalcata di sette minuti e mezzo, pezzo in pieno stile Manowar che omaggia i propri fan e i paesi dove il gruppo newyorkese vanta un maggior seguito. Inoltre, l’intero brano è un collage di autocitazioni estrapolate dai titoli di canzoni del loro passato, fino a autoincoronarsi i re del metallo. Magari tutto ciò potrebbe apparirvi pretenzioso e autoreferenziale a livelli demenziali, ma del resto, venvia, siamo nel campo del fottuto heavy metal, settore in cui c’è ben poco spazio per umiltà e modestia.
Termina così un disco epocale, l’ultimo disco degli anni ’80 dei Manowar e l’ultimo con Ross the Boss alla chitarra, un disco che nemmeno la band stessa sarà più in grado di replicare in futuro, un disco che chiude un ciclo.
A distanza di trent’anni loro sono ancora qua, impegnati a difendere con orgoglio la purezza del metallo, e nonostante i nemici del vero metal in passato abbiano più volte cercato di eliminarli in ogni modo (come denunciò DeMaio nello storico concerto di supporto all’album a Firenze, in un solenne monologo che scalzò “I have a dream” al vertice della classifica dei discorsi più influenti della storia), i Manowar non si sono mai piegati né tantomeno scesi a compromessi con il nemico.
Il prossimo anno saranno impegnati nel tour d’addio, l’ultima epica battaglia prima di posare le armi e guadagnarsi il meritato viaggio verso il Valhalla, ma il loro ricordo rimarrà vivido nel cuore dei trve defender per l’eternità, i quali per sempre alzeranno il braccio destro in cielo, afferrando il polso con la mano sinistra e intonando a squarciagola “HAIL HAIL HAIL AND KILL!!!”.
- Supergiovane
Tre decadi orsono i gloriosi Manowar, da oltre 35 anni sovrani incontrastati del culto del vero metallo, consegnavano al mondo il loro sesto album da studio, Kings of Metal, da molti (divinità norrene comprese) considerato il loro capolavoro. Avvertenze per l’uso: si tratta di un album di incontaminato true metal purissimo al 100%, potenziato ad alto voltaggio di decibel-watt. Per la salute dei vostri timpani, prestare attenzione e maneggiare con cura. Tenere lontano dalla portata dei poser.
Era l’anno di grazia 1988, durante l’arco degli eighties il metal era stato consacrato genere supremo dell’universo conosciuto e questo grazie a una serie di capolavori assoluti inossidabili, eppure sul finire di quegli anni per il metal comincerà un periodo di crisi determinato sia dal calo di ispirazione dei gruppi fondamentali, sia dall’avanzata di forze oscure che da un paio d’anni hanno cominciato a insinuarsi come virus nel mondo della musica mettendo a repentaglio la popolarità del vero metallo: stiamo parlando dei poser.
Fricchettoni imbellettati, musicisti sgangherati, inutili cantanti di notti brave sciagurate, nuovi protagonisti, groupies rampanti, rammolliti mezze calze, feroci produttori di canzoni da mtv false, che hanno spesso fatto del poserismo un’arte, coraggio libertini buttate giù le carte! Un affronto intollerabile verso i puristi del vero metallo. Serviva un’ondata che come uno tsunami spazzasse via tutti questi gruppi sdolcinati che propinavano singoli patinati fm-friendly da alta classifica. Serviva qualcuno che rappresentasse l’archetipo del metallaro irreprensibile, qualcuno che facesse valere i principi di forza, onore, coraggio, ribellione, lealtà su cui fondava il metal, qualcuno che potesse fondere questi principi alla mitologia nordica, ispirandosi alla rude epicità dei racconti di Robert E. Howard. In poche parole, serviva qualcuno che potesse incarnare lo spirito del dio del tuono. E del dio del metallo, se mai fosse stato inventato. E chi meglio di due buzzurri italoamericani del Bronx, Joey DeMaio e Eric Adams (all’anagrafe Louis Marullo), potrebbe vestire i panni (o meglio, i mutandoni pelosi alla Conan il Barbaro) di defender del vero metallo evocando alla perfezione l’intrepido guerriero le cui gesta vengono decantate nella mitologia vichinga? Con loro, rispondono alla chiamata alle armi anche il prode chitarrista Ross The Boss, compagno delle mille battaglie fin lì sostenute, e il fedele scudiero Scott Columbus dietro le pelli.
Ha così inizio la loro più dura battaglia, quella contro la crescente orda dei poser, la piaga di mtv e i malvagi producer che sotto coercizione tentano di convertire i gruppi metal facendoli diventare dei poser. "Kings of Metal" è il loro personale Ragnarok.
“Quando il nostro produttore ci chiese di scrivere ballate rock gli dissi che non aveva proprio capito un cazzo della nostra musica, e non esitai a mandarlo a fare in culo”. Così DeMaio si pronunciò. Nessuno doveva azzardarsi a contaminare la purezza del metallo. Dai Manowar nient’altro sentirete se non puro, duro, epico, cazzuto heavy metal sparato a palla senza compromessi. Appena metterete nello stereo il cd, verrete accolti dal roboante ruggito di una marmitta infuocata, dopo non ci sarà il matusa Abatantuono lamentarsi “Mi arriva il primo fesso con la moto a scureggietta e mi sveglia” (in caso contrario allora avete sbagliato cd), ma partirà il cazzutissimo attacco di "Wheels of Fire", powercavalcata metallica capace di far salire il testosterone a mille anche al meno true dei metallari. Tuoni, fulmini, saette, doppia cassa a ciocco, l’ugola di Adams e la chitarra di Ross the Boss che stridono che è una bellezza, il tutto condotto dal basso divino di sua maestà Joey. Puro metallo. Un sentito omaggio verso i fedeli amici biker, veri metallari, "if you are not into metal you are not my friend". Le sgasate e le sgommate poste in outro sono tutte dedicate a loro.
Senza dubbio un buon modo per aprire le danze, ma bando alle ciance, chi conosce i Manowar sa già bene qual è il pezzo forte di "Kings of Metal": stiamo ovviamente parlando della mitica "Hail and Kill". Se provassimo a cercare la definizione della parola “epicità” sul dizionario, troveremmo testo e descrizione per filo e per segno di questa epica composizione. Chiunque sia ben stato indottrinato ad adorare il metallo non può non conoscerla a memoria. La struttura del pezzo rimanda alla celebre "Hallowed by thy Name" degli Iron, fraseggi metallici introducono una serie di arpeggi che accompagnano Marul…ehm, Adams che nelle vesti di menestrello con tono solenne narra le gesta di un manipolo di cavalieri che si apprestano ad affrontare una sanguinosa battaglia guidati dal loro leader, nato e cresciuto in una foresta,e allevato dai lupi. Quanta fottuta epicità in tutto ciò. Terminata la quiete prima della tempesta, si parte all’attacco. Ross the Boss e DeMaio erigono una sezione ritmica affilata come Excalibur e potente come il martello di Thor, impreziosita dalla rapsodia solista prodotta dalla sei corde di Ross. Adams, degno erede al trono di Ian Gillan nella dinastia degli screamers, sforna una performance leggendaria fatta di vocalizzi evocativi e taglienti grida lancinanti, convergendo nel più anthemico refrain della storia del metal. "Hail! Hail! Hail & Kill!!!" Il punto massimo di epicità viene raggiunto quando la schiera di trve defender intona in coro questi versi. Se a questo punto non avete l’adrenalina che vi scorre impazzita nelle vene , non siete degni di essere veri metallari. "Heavy Metal or no Metal at all, whimps and posers LEAVE THE HALL!!"
La forza dei Manowar sta anche nel sapere scrivere ballad suggestive dal forte sapore epico e leggendario, "The Crown and the Ring (Lament of the Kings)" e "Heart of Steel" sono qui a testimoniarlo. Spendiamoci due parole a riguardo. La prima è stata registrata all’interno della cattedrale St.Paul a Birmingham, sorretta da un’imponente sezione orchestrale a cui si aggiunge l’organo (suonato da Ross the Boss), con il contributo del Canoldir Male Choir, coro che dona estrema maestosità a un pezzo già di per sé evocativo a livelli siderali, del resto, non è mai stato un mistero di come la solennità di Wagner e della musica classica abbia sempre ispirato DeMaio e compagnia d’armi. Una sorta di preghiera e atto di devozione verso Odino, canzone che per i fan ha un valore religioso.
"Heart of Steel" invece è una struggente ballad metà pianistica improntata sulla sofferta e valorosa interpretazione di Mar…ehm, cioè Adams (accidenti, non ce la posso fare…). Niente smancerie o melodie ruffiane, solo tanta malinconica e solenne epicità. Gruppuncoli di poser, prendete esempio, è così che si scrivono le ballate metal, le vostre smielate paccottiglie patinate tenetevele per voi, finocchi! DEATH TO FALSE METAL!!!
Bene è ricordare che King DeMaio è il principale compositore della band, non può certo mancare il momento a lui dedicato: "Sting of the Bumblebee", una sua personale rivisitazione del "Volo del Calabrone" di Nikolai Andreyevich Rimsky-Koskarov, in cui il buon Joey macina note su note con il suo basso (ma si può considerare davvero un basso?) customizzato a proprio piacere (che come il martello di Thor, nessun altro è degno di impugnare).
La rivista Guitar World osò classificarlo al nono posto come peggior solo di tutti i tempi, un affronto che questi eretici infedeli pagheranno a caro prezzo quando la furia di Odino si abbaterà su loro polverizzandoli in microscopiche particelle.
Già dal precedente "Fighting the World" i Manowar hanno sperimentato composizioni più catchy, pur mantenendo inalterato il loro livello di epicità, "Kingdom Come" si muove in questa direzione, l’approccio è certamente più armonico e immediato rispetto ai loro standard, ne viene fuori un mid-tempo accattivante e esaltante, in cui si esalta soprattutto Ross the Boss con riff elettrizzanti e un assolo melodico e sublime. Anche la title-track si segnala per essere un pezzo decisamente acchiappante spingendosi verso sonorità a cavallo fra il metal e l’hard rock mostrando un certo flavour scanzonato e festaiolo, tendenzialmente vicino allo stile dei primi Motley Crue e al Glam più ruvido, i Manowar possono permetterselo, senza passare per poser. Other bands play, MANOWAR KILL!!
Nel disco è presente anche "Pleasure Slave", brano non presente nell’edizione in vinile ma ripescato per il formato compact disc. Ebbene, all’epoca scatenò parecchie polemiche per il contenuto del testo ritenudo spudoratamente sessista. Prima, molto prima di Trump e Weinstein, toccò al buon DeMaio venire accusato di ciò, eppure l’intento era esattamente l’opposto, "Pleasure Slave" narra di donne insoddisfatte del proprio marito che si emancipano rompendo il giuramento di eterna fedeltà per concedersi sessualmente al guerriero più valoroso (cioè DeMaio) soddisfacendo i suoi meritati piaceri al ritorno dal campo di battaglia. Il pezzo rimanda alle atmosfere rapsodiche e cadenzate del periodo di "Into Glory Ride" e "Sign of the Hammer", accompagnate dai gemiti e urletti di piacere di donzelle in estasi ormonale.
"The Warrior’s Prayer", intermezzo recitato, vede protagonista un ragazzino che chiede al nonno di raccontargli una storia prima di addormentarsi, non un racconto di fantasia, una storia vera, e il nonno lo accontenta narrandogli delle eroiche gesta di quattro impavidi guerrieri, di cui egli stesso faceva parte da giovane. “Chi erano i quattro guerrieri nonno?” chiede esaltato il ragazzino alla fine della storia: “I re del metallo!!” è l’orgogliosa, piena di enfasi risposta del nonno.
Chiude l’album dei re del metallo "Blood of the Kings", epica cavalcata di sette minuti e mezzo, pezzo in pieno stile Manowar che omaggia i propri fan e i paesi dove il gruppo newyorkese vanta un maggior seguito. Inoltre, l’intero brano è un collage di autocitazioni estrapolate dai titoli di canzoni del loro passato, fino a autoincoronarsi i re del metallo. Magari tutto ciò potrebbe apparirvi pretenzioso e autoreferenziale a livelli demenziali, ma del resto, venvia, siamo nel campo del fottuto heavy metal, settore in cui c’è ben poco spazio per umiltà e modestia.
Termina così un disco epocale, l’ultimo disco degli anni ’80 dei Manowar e l’ultimo con Ross the Boss alla chitarra, un disco che nemmeno la band stessa sarà più in grado di replicare in futuro, un disco che chiude un ciclo.
A distanza di trent’anni loro sono ancora qua, impegnati a difendere con orgoglio la purezza del metallo, e nonostante i nemici del vero metal in passato abbiano più volte cercato di eliminarli in ogni modo (come denunciò DeMaio nello storico concerto di supporto all’album a Firenze, in un solenne monologo che scalzò “I have a dream” al vertice della classifica dei discorsi più influenti della storia), i Manowar non si sono mai piegati né tantomeno scesi a compromessi con il nemico.
Il prossimo anno saranno impegnati nel tour d’addio, l’ultima epica battaglia prima di posare le armi e guadagnarsi il meritato viaggio verso il Valhalla, ma il loro ricordo rimarrà vivido nel cuore dei trve defender per l’eternità, i quali per sempre alzeranno il braccio destro in cielo, afferrando il polso con la mano sinistra e intonando a squarciagola “HAIL HAIL HAIL AND KILL!!!”.
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