giovedì 22 novembre 2018

Kinks: "The Kinks are The Village Green Preservation Society" (1968)

Il 22 novembre di cinquant'anni fa uscì anche un altro piccolo classico del rock inglese degli anni sessanta, "The Kinks are The Village Green Preservation Society" dei Kinks, appunto. Album clamoroso che inaugura una sequenza di tre dischi - con "Victoria" (1969) e "Lola" (1970) - che resteranno la testimonianza più fulgida del valore della band dei fratelli Davies.




(qui per l'LP completo: https://www.youtube.com/playlist?list=PL40xdWb-2paezlG0eNJH6EuYDqIaZb3nj)

Per coloro che rimpiangono il tempo in cui la musica non era solo una rincorsa al successo commerciale e alle classifiche, la vicenda dei Kinks, guidati dal cantante-chitarrista e autore Ray Davies, è monito esemplare a non idealizzare troppo il passato.

In particolare, nessun album dei Kinks è più adatto a essere di monito a queste persone di "The Village Green Preservation Society", disco del 1968 che mostra come il sentimento nostalgico per un passato immaginario sia sempre esistito, contemporaneamente alla sua hegeliana antitesi, gli slanci futuristi, in ogni fase della società umana.

Il presente di Ray Davies, infatti, è alquanto miserevole. L'uomo è schiacciato dalle pressioni della sua casa discografica, che gli chiede ogni volta di realizzare un nuovo hit da classifica. Dopo il successo del loro singolo "You really got me" (1964), i Kinks sono stati espulsi dagli Stati Uniti per cinque anni, perdendo l'occasione di partecipare alla fruttuosa era dei grandi concerti americani e venendo di conseguenza sottoesposti commercialmente. Allo stesso tempo, per quanto apprezzati nella loro terra d'origine, l'Inghilterra, non riescono a piazzare nelle parti alte della classifica né LP né singoli.

Le pressioni rischiano di far sciogliere il gruppo, che oltre a Ray consta dalle origini del fratello Dave, chitarra solista e seconda voce, del bassista Pete Quaife e del batterista Mick Avory. Ray, principale compositore del gruppo, che ha già iniziato una discesa in una vena nostalgica e malinconica nei due dischi precedenti, arriva al vertice della propria parabola concava con l'idea di un concept album che tratti il tema dei sogni dell'infanzia e della vecchia Inghilterra, quella fatta di paesini o quartieri periferici la cui vita sociale ruota attorno al 'village green', ovvero quel particolare tipo di parco pubblico inglese, spesso dotato di un gazebo in cui suonano le bande militari la domenica, magari con un laghetto per le papere, o un chiosco dei gelati di qualche forestiero venuto dall'Italia.

Il disco, naturalmente, pur avendo vendite rispettabili ed essendo adorato da colleghi musicisti come Pete Townshend, non entrò nemmeno in classifica. Solo anni dopo sarebbe diventato un disco di culto ed entrato in tutte le classifiche dei migliori dischi britannici. Dopotutto, la nostalgia per il passato e l'infanzia non erano esattamente valori popolari fra i giovani del '68, e i Kinks sembravano fuori fuoco e apolitici peggio del Paul McCartney di "Obladi-oblada" e "Penny Lane".

Come nelle migliori opere nostalgiche, il suo autore non si limita a sognare l'infanzia in modo acritico, ma riconosce chiaramente che il passato viene idealizzato dagli occhi di un adulto che rimpiange la propria giovinezza ('all my friends are all middle class and gray, but I live in a museum, so I am okay'), e che molte delle cose perdute si sono perse non per un peggioramento del mondo circostante, ma per l'inevitabile disillusione e problematicità che accompagna la vita adulta (temi che echeggiano in pezzi come "Do you remember Walter" e "Johnny Thunder").

In tutto questo, il brit pop dei Kinks e la melodicità delle opere di Ray non riescono a nascondere le origini di garage rock del gruppo: le chitarre sono sanguigne, con i power chords di Dave Davies in evidenza, la sezione ritmica è viscerale ed efficace, e niente può compromettere l'energia rock del quartetto (evidente specialmente in brani più vicini al r&b inglese di inizio decennio come "Last of the Steam-Powered Trains" e "Wicked Annabella", col suo finale alla Who): né clavicembali ("Village Green") od orchestrazioni al mellotron (grazie a uno dei migliori sessionman dell'epoca, Nicky Hopkins), né rumori psichedelici ("Phemomenal Cat") o armonie corali ("Starstruck", che anticipa certo glam rock di Bowie e T.Rex). Nel complesso chi scrive ritiene che questo elemento sia positivo; però i valori di produzione sixties possono emergere come un limite per un ascoltatore abituato a suoni più moderni.

All'epoca dell'uscita, "The Village Green Preservation Society" era chiaramente il migliore album del gruppo; un primato che avrebbe condiviso con i due dischi successivi, "Victoria" (1969) e "Lola" (1970). Difficilissimo stabilire una gerachia, ma di certo alcune delle più memorabili composizioni del gruppo si trovano su questo LP, a partire dal brano di apertura che da il titolo al disco, una melodia pop accattivante con armonie corali semplici ma efficaci, una sezione ritmica chitarra acustica-basso-batteria dinamica e vitale.

Altre perle dell'album sono l'alienazione implicita in "Animal Farm", la struggente, straziante "All of my friends were there" (una delle canzoni più introverse e agorafobe della loro produzione), la sarcastica "People take pictures of each other" (da fare sentire a tutti quelli che pensano che la mania dei selfie e delle fotografie su facebook siano segno di patologie uniche della nostra era), con cui il disco si chiude con una nota alta e la chiara presa di coscienza della band del fatto che fantasticare di un passato migliore resta, appunto, solo una fantasia.

- Prog Fox

Nessun commento:

Posta un commento

ARTISTI IN ORDINE ALFABETICO:   #  --  A  --  B  --  C  --  D  --  E  --  F  --  G  --  H  --  I  --  J  --  K  --  L  --  M  --  N  --  ...