Il 22 novembre di cinquant'anni fa usciva il "White Album", magnum opus dei Beatles.
Su questo album è stato scritto e detto di tutto; e una nuova messe di commenti e articoli seguirà la pubblicazione, per il cinquantennale, del deluxe set stracolmo di inediti, demo e versioni alternative.
(l'intero box set superdeluxe è disponibile nella gloria delle sue 107 tracce su youtube:https://www.youtube.com/ playlist?list=OLAK5uy_mMcxA y3_NLEnsuSq9I_qWIONOpdRfWl Ww)
Partiamo dalle cose facili, mai scontate. “The Beatles”, meglio conosciuto come il Disco Bianco dei Beatles (White Album), è il loro nono album in studio ed il penultimo prima del loro scioglimento ufficiale. “Let It Be”, convenzionalmente definito l’ultimo album, contiene in realtà tracce precedenti ad “Abbey Road”, e fu realizzato con intenti più che altro commerciali, ma non per questo squalificabile nel corpus beatlesiano.
La precisazione va fatta perché ad un ascolto attento “Let It Be” ed il Disco Bianco hanno molte caratteristiche comuni, si avverte un’atmosfera di forte comunione stilistica, in quanto questi brani furono realizzati nello stesso arco temporale.
Altra ovvietà: il White Album segue il Srg. Pepper, ma solo nominalmente. Nella precedente recensione abbiamo ricordato come Srg. Pepper sia una capolavoro di ensemble stilistica, affiatato e ricco di splendida armonia di testi e musica, un lavoro di gruppo in cui ogni componente della band infonde il suo contributo con la massima compartecipazione. Giusto un anno dopo, questo quadrato slavato ci lascia senza fiato.
Essenziale, evanescente. In realtà così concreto, lontanissimo anche graficamente dalla barocca copertina del suo illustre predecessore. Un doppio album, ben 30 canzoni, gettate lì senza alcun filo conduttore apparente, a tema libero, anarchico e dinamitardo; ma anche pregno di una dolcezza adulta e consapevole, nutrito di sentimenti maturi, complessi, come a dipingere un Amore cosmico, universale e non più adolescenziale. E poi Oriente, India, Rishikesh, esistenzialismo e spiritualità senza fine. In una strepitosa cornice tecnica fatta di “finger-picking”. Il cuore karmico dell’album è puro, le melodie riecheggiano un Oriente diventato mitico, riscoperto con profondità ed eleganza, degne di un filosofo ottocentesco che costruisce l’idealismo tedesco mediante innamoramenti orientali.
I Beatles destrutturano il 68’ in modo innovativo, così da consegnarci un’opera intatta e soprattutto onesta, tanto che oggi il loro impareggiabile lavoro si trova cristallizzato e filtrato in purezza: esso non solo ci descrive l’epoca, ma ci restituisce una critica musicale essenziale a quel magmatico periodo storico. Ovvero, non è solo una cartolina sbiadita del periodo dei fiori in testa verso San Francisco.
Il composto animo inglese, sornione in attesa della sua nuova definizione di Impero del XX secolo, nella versione estetica di John si trasforma in una buffonesca parodia “sui generis”; blues, esperienze tantriche, il suo rapporto con Yoko, la questione americana, l’insanabile pigrizia dell’artista, la critica al periodo indiano ed infine il suo caleidoscopico nonsense, mitigato, anzi solo addomesticato, dopo l’esperienza ebbra del “Walrus”. In poche parole: qualche goccia di LSD in un ottimo tè Earl Grey. John è l’anomalia sistemica dell’album. Certo, tutto funziona bene e stiamo parlando del decimo album migliore al mondo (su 500!), ma dopo centinaia di ascolti non può che emergere con forza l’insofferenza del Nostro per il sistema in cui si trova a lavorare. Se si volesse sintetizzare in poche parole l’apporto di Lennon all’album sarebbe: geniale ma problematico.
“Happiness is a Warm Gun” è stupenda e per questo ti pone di fronte ad una scelta; ti piace? ne vuoi di più? ma dove lo trovo? “I'm So Tired” sembra comunicare qualcosa di più; “Everybody's Got Something to Hide Except Me and My Monkey” è la mazzata finale.
Paul invece è tranquillo, si muove quasi con maggiore dimestichezza: senza il dubbio recondito di dover manifestare qualcosa al mondo. I brani sono di certo tra i migliori della sua produzione: “Blackbird” rimane il manifesto di tutta la sua poetica a venire, “Ob-La-Di, Ob-La-Da” il massimo esempio di divertissement beatlesiano, “Martha My Dear” e “Mother Nature's Son” un inno alla vita e senza alcun dubbio brani dal forte imprinting per gli anni a venire.
Non tralasciamo “Back in the U.S.S.R.” e soprattutto “Helter Skelter”, il primo brano hard-rock della storia.
La sintesi di tutto questo: una campagna inglese intatta nelle sue originali enclosures, bombardata da missili provenienti da un Sottomarino Giallo, ancorato poco più in là. A Paul non importa del conflitto, lui è lì per fare canzoni.
Non faremmo giustizia all’album ed al gruppo stesso se non ricordassimo l’apporto fondamentale di George: “While My Guitar Gently Weeps” è la canzone che tutti i chitarristi degni di questo nome avrebbero voluto comporre. Meravigliosa, struggente e pregna di significati, nella sua semplice e geniale esecuzione: un vero capolavoro. “Piggies”, semplice e fanciullesca, oggi è ricordata soprattutto per essere l’infausta canzone che ha ispirato la Family di Manson nel suo infame percorso, insieme ad “Helter Skelter” e “Happiness is a Warm Gun” (per chi non lo sapesse “Pig” è il termine dispregiativo con cui sono definiti i poliziotti negli USA). Noi la ricordiamo oggi per il meraviglioso refrain. “Long, Long, Long” è una struggente e silenziosa chiacchierata con l’Eterno; ascoltatela nella vostra stanza, da soli e con il massimo silenzio possibile, e soprattutto godetevi la parte finale. “Savoy Truffle” è dedicata all’amico Eric Clapton, troppo goloso di cioccolatini e quindi funestato da problemi odontoiatrici.
Arrivati alla fine, scontato il giudizio rimane una domanda. Perché tutto questo? Com’è scaturito questo caos meraviglioso di contribuiti geniali? Perché questo preludio sublime che ci porta poi alla fine? Non ho tutte le risposte, ma so con certezza che la morte del grande Brian Epstein, manager e mentore del gruppo, ha di certo influito. Senza alcun dubbio e con grande forza. Dopo la sua morte passeranno solo poco più di 2 anni, ed i Beatles si scioglieranno, nella data resa ufficiale del 10 aprile 1970.
Cosa avete davanti, pronto all’ascolto: un anti-concept album, una delle più grandi e potenti esperienze musicali del secolo. Un involucro minimalista, che nasconde i massimi contenuti.
- Agent Smith
Partiamo dalle cose facili, mai scontate. “The Beatles”, meglio conosciuto come il Disco Bianco dei Beatles (White Album), è il loro nono album in studio ed il penultimo prima del loro scioglimento ufficiale. “Let It Be”, convenzionalmente definito l’ultimo album, contiene in realtà tracce precedenti ad “Abbey Road”, e fu realizzato con intenti più che altro commerciali, ma non per questo squalificabile nel corpus beatlesiano.
La precisazione va fatta perché ad un ascolto attento “Let It Be” ed il Disco Bianco hanno molte caratteristiche comuni, si avverte un’atmosfera di forte comunione stilistica, in quanto questi brani furono realizzati nello stesso arco temporale.
Altra ovvietà: il White Album segue il Srg. Pepper, ma solo nominalmente. Nella precedente recensione abbiamo ricordato come Srg. Pepper sia una capolavoro di ensemble stilistica, affiatato e ricco di splendida armonia di testi e musica, un lavoro di gruppo in cui ogni componente della band infonde il suo contributo con la massima compartecipazione. Giusto un anno dopo, questo quadrato slavato ci lascia senza fiato.
Essenziale, evanescente. In realtà così concreto, lontanissimo anche graficamente dalla barocca copertina del suo illustre predecessore. Un doppio album, ben 30 canzoni, gettate lì senza alcun filo conduttore apparente, a tema libero, anarchico e dinamitardo; ma anche pregno di una dolcezza adulta e consapevole, nutrito di sentimenti maturi, complessi, come a dipingere un Amore cosmico, universale e non più adolescenziale. E poi Oriente, India, Rishikesh, esistenzialismo e spiritualità senza fine. In una strepitosa cornice tecnica fatta di “finger-picking”. Il cuore karmico dell’album è puro, le melodie riecheggiano un Oriente diventato mitico, riscoperto con profondità ed eleganza, degne di un filosofo ottocentesco che costruisce l’idealismo tedesco mediante innamoramenti orientali.
I Beatles destrutturano il 68’ in modo innovativo, così da consegnarci un’opera intatta e soprattutto onesta, tanto che oggi il loro impareggiabile lavoro si trova cristallizzato e filtrato in purezza: esso non solo ci descrive l’epoca, ma ci restituisce una critica musicale essenziale a quel magmatico periodo storico. Ovvero, non è solo una cartolina sbiadita del periodo dei fiori in testa verso San Francisco.
Il composto animo inglese, sornione in attesa della sua nuova definizione di Impero del XX secolo, nella versione estetica di John si trasforma in una buffonesca parodia “sui generis”; blues, esperienze tantriche, il suo rapporto con Yoko, la questione americana, l’insanabile pigrizia dell’artista, la critica al periodo indiano ed infine il suo caleidoscopico nonsense, mitigato, anzi solo addomesticato, dopo l’esperienza ebbra del “Walrus”. In poche parole: qualche goccia di LSD in un ottimo tè Earl Grey. John è l’anomalia sistemica dell’album. Certo, tutto funziona bene e stiamo parlando del decimo album migliore al mondo (su 500!), ma dopo centinaia di ascolti non può che emergere con forza l’insofferenza del Nostro per il sistema in cui si trova a lavorare. Se si volesse sintetizzare in poche parole l’apporto di Lennon all’album sarebbe: geniale ma problematico.
“Happiness is a Warm Gun” è stupenda e per questo ti pone di fronte ad una scelta; ti piace? ne vuoi di più? ma dove lo trovo? “I'm So Tired” sembra comunicare qualcosa di più; “Everybody's Got Something to Hide Except Me and My Monkey” è la mazzata finale.
Paul invece è tranquillo, si muove quasi con maggiore dimestichezza: senza il dubbio recondito di dover manifestare qualcosa al mondo. I brani sono di certo tra i migliori della sua produzione: “Blackbird” rimane il manifesto di tutta la sua poetica a venire, “Ob-La-Di, Ob-La-Da” il massimo esempio di divertissement beatlesiano, “Martha My Dear” e “Mother Nature's Son” un inno alla vita e senza alcun dubbio brani dal forte imprinting per gli anni a venire.
Non tralasciamo “Back in the U.S.S.R.” e soprattutto “Helter Skelter”, il primo brano hard-rock della storia.
La sintesi di tutto questo: una campagna inglese intatta nelle sue originali enclosures, bombardata da missili provenienti da un Sottomarino Giallo, ancorato poco più in là. A Paul non importa del conflitto, lui è lì per fare canzoni.
Non faremmo giustizia all’album ed al gruppo stesso se non ricordassimo l’apporto fondamentale di George: “While My Guitar Gently Weeps” è la canzone che tutti i chitarristi degni di questo nome avrebbero voluto comporre. Meravigliosa, struggente e pregna di significati, nella sua semplice e geniale esecuzione: un vero capolavoro. “Piggies”, semplice e fanciullesca, oggi è ricordata soprattutto per essere l’infausta canzone che ha ispirato la Family di Manson nel suo infame percorso, insieme ad “Helter Skelter” e “Happiness is a Warm Gun” (per chi non lo sapesse “Pig” è il termine dispregiativo con cui sono definiti i poliziotti negli USA). Noi la ricordiamo oggi per il meraviglioso refrain. “Long, Long, Long” è una struggente e silenziosa chiacchierata con l’Eterno; ascoltatela nella vostra stanza, da soli e con il massimo silenzio possibile, e soprattutto godetevi la parte finale. “Savoy Truffle” è dedicata all’amico Eric Clapton, troppo goloso di cioccolatini e quindi funestato da problemi odontoiatrici.
Arrivati alla fine, scontato il giudizio rimane una domanda. Perché tutto questo? Com’è scaturito questo caos meraviglioso di contribuiti geniali? Perché questo preludio sublime che ci porta poi alla fine? Non ho tutte le risposte, ma so con certezza che la morte del grande Brian Epstein, manager e mentore del gruppo, ha di certo influito. Senza alcun dubbio e con grande forza. Dopo la sua morte passeranno solo poco più di 2 anni, ed i Beatles si scioglieranno, nella data resa ufficiale del 10 aprile 1970.
Cosa avete davanti, pronto all’ascolto: un anti-concept album, una delle più grandi e potenti esperienze musicali del secolo. Un involucro minimalista, che nasconde i massimi contenuti.
- Agent Smith
Nessun commento:
Posta un commento