lunedì 26 novembre 2018

Bonzo Dog Band: "The Doughnut in Granny's Greenhouse" (1968)

Il novembre di cinquant'anni fa vede anche la pubblicazione di "The Doughnut in Granny's Greenhouse", secondo album dei dada rocker inglesi Bonzo Dog Band, amici dei Beatles e dei Monty Python e musicisti intelligenti innamorati di surrealismo e dadaismo.
"The Doughnut in Granny's Greenhouse" affianca l'esordio di "Gorilla" come migliore opera della Band.



(disco completo con bonus tracks disponibile qui:https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_nnBJsPd1tHnQqisX5oY4w7XBYjlFYD7fI)

I Bonzo Dog Band, collettivo musicale e satirico sorto in Inghilterra, avevano dato alle stampe il successo critico di “Gorilla” nel 1967, disco che più che rock si caratterizzava per vaudeville, influenze jazz, stupid songs zappiane. Per il seguito dell’album, il gruppo si trasformò in un quintetto più tradizionale e scelse un approccio meno disordinato e più stringentemente rock, cosa che se da un lato metteva la mordacchia ad alcuni dei momenti più esuberanti, dall’altro garantiva maggiore fruibilità e coerenza.

Composto in larga parte dai mattatori Neil Innes (piano, tastiere, chitarre) e Vivian Stanshall (tromba, tuba, violino), il disco prende il titolo da una barzelletta di Michael Palin, amico del gruppo e futuro Monty Python, e parrebbe riferirsi ai bagni esterni di una volta. A fianco dei due leader sono i vecchi compagni - il batterista Larry Smith e i polistrumentisti Roger Ruskin Spear (chitarre, tromba, clarinetto, cornetto, xilofono, glockenspiel e fisarmonica) e Rodney Slater (sax, tromba, oboe, cornetto, trombone). Il sessionman Joel Druckman supporta la formazione al basso.

“The Doughnut in Granny’s Greenhouse” si apre con i rumori psichedelici di “We are normal”, che esplode poi in un breve rock acido che cita l’opera teatrale “Marat/Sade” di Peter Weiss. “Postcard” interseca pop jazz raffinato e r&b inglese; “Beautiful Zelda” comincia come psichedelia e poi sbrodola tutto in una esilarante, orecchiabilissima parodia del genere.

Il titolo di “Can blue men sing the whites?” è chiaramente una presa in giro della domanda “can white men sing the blues?”, ma quello che conta è che si tratta di un pastiche perfetto che anticipa di dieci anni i Blues Brothers. “Hello Mabel” ci riporta all’intersezione fra trad jazz e vaudeville.

Se fino a qui il disco è stato perlopiù simpaticamente bizzarro, il crescendo nelle composizioni non si arresta, e la parte centrale del disco ospita alcuni dei pezzi migliori: “Kama Sutra”, nemmeno un minuto di surf’n’roll delizioso che introduce il rock minaccioso di “Humanoid Boogie”; lo show di Spear “The Trouser Press”, che rimanda alle storielle surreali del primo album e che ispirò il titolo di una delle più interessanti riviste americane di musica alternativa; la parodia di canzone francese “My pink half of the drainpipe”; l’acid rock di “Rockaliser baby”, pregno di influenze beatlesiane e raga e nobilitato da un eccellente solo di sax.

Chiudono il disco “Rhino Cratic Oaths”, un discreto rock narrativo, e la perfetta conclusione paradossale e alienante “11 Mustachioed Daughters”, col suo allucinato finale di pianoforte e rumori marini.

In conclusione, “The Doughnut in Granny’s Greenhouse” è il secondo grande album del gruppo inglese, che non mancherà di compiacere chi aveva amato il primo disco e potrà più facilmente essere apprezzato da chi trovava troppo confusionario e strabordante l’esordio. Il valore assoluto della formazione si confermerà anche nei dischi successivi, un po’ inferiori in quanto meno strani e originali, ma non per questo privi di bizzarrie e fascino.

- Prog Fox

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