sabato 13 ottobre 2018

Gojira: "The way of all flesh" (2008)


13 ottobre 2008: esattamente dieci anni fa vide la luce The Way of All Flesh, quarto studio album del gruppo metal francese Gojira, prodotto dopo una lunga fase di scrittura e sei mesi di lavori in studio. Stiamo parlando di uno dei migliori dischi di metal tecnico ed estremo del decennio.



(disco completo qui: https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_lIRpqGOZCNEIXlNFN3baWWWVTLq0_azuo)

La band veniva da quel "From Mars to Sirius"che tanto aveva impressionato un po’ tutti fra addetti ai lavori, critica e pubblico, e che aveva rappresentato la loro definitiva consacrazione come next big thing all’interno della scena.

Sono veramente pochi nell’epoca 2K i gruppi venuti alla ribalta per ciò che concerne originalità e personalità (non che sia venuta a mancare la qualità nelle nuove proposte, ma si sa, nei generi che non godono di visibilità riuscire a emergere è sempre una dura lotta…), possiamo citare Mastodon, The Dillinger Escape Plan, Protest the Hero, volendo possiamo metterci in mezzo anche Meshuggah e Strapping Young Lad anche se già avevano guadagnato la loro buona fetta di consensi nella seconda metà degli nineties, insomma, gruppi così si possono contare sulle dita di una mano o due. I Gojira meritano pienamente di fare parte di questa cerchia ristretta.

Difficilmente catalogabile in un sottogenere preciso, il quartetto transalpino composto dai fratelli Joe (leader, cantante, chitarrista e principale compositore) e Mario Duplantier (eccezionale batterista), dalla seconda chitarra Christian Andreu e dal bassista Jean-Michele Labadie, propone una miscela polimorfa di soluzioni, partendo dal proprio retaggio groove thrash (nacquero infatti come cover band dei Sepultura, prima di cominciare i primi passi da soli), gravato da distorsioni massicce death metal, diluite con digressioni ipnotiche dense di nebbiosa atmosfera tipica dello sludge e del postcore. Spesso vengono accostati anche ai Meshuggah, per il loro modo di intrecciando riff stoppati e/o frammentati su poliritmie a incastro, tessendo un tappeto ritmico estremamente elaborato.

Punto di forza del gruppo, l’elaborata, complessa e non lineare struttura compositiva, che inizialmente può risultare ostica e eccessivamente monolitica all'orecchio dell'ascoltatore (stessa identica cosa che si potrebbe dire anche rivolgendosi ai Meshuggah, del resto), ma favorita da ritmiche tendenzialmente colme di groove e di riff corposi e travolgenti, contraddistinti dalla loro peculiare tecnica usata e abusata del pick-slide abbinata al pedale wah (anche chiamato effetto coda di gatto calpestata), loro caratteristico marchio di fabbrica.

La capacità del gruppo di presentare un songwriting accattivante risiede certamente anche nelle doti individuali dei singoli membri, dotati di un personale stile ma perfettamente funzionali fra loro e al servizio del collettivo, i Gojira sono uno dei rari casi oggigiorno in cui la formazione attuale è la medesima di quando il gruppo veniva assemblato oltre vent’anni fa, se non è un record, sono sulla buona strada per batterlo.

I temi affrontati nei brani sono sempre tradizionalmente di ispirazione ambientalista, legati al conflitto fra natura e progresso tecnologico, con la complicità del poco lungimirante modo in cui l’uomo affronta i cambiamenti attuali, oltre che di tipologia filosofica riguardante l’origine della vita e la morte.

Punta di diamante dell’album è la fenomenale "Toxic Garbage Island", pezzo che mette in risalto tutti i maggiori pregi del gruppo francese, sincopi dissonanti, riff massicci e distorti incastrati fra loro con meticolosità chirurgica, la furia primordiale del semigrowl di Duplantier, padrone di uno dei timbri vocali più riconoscibili del genere (è cresciuto con Max Cavalera e i Sepultura e si sente), il drumming del fratello Mario è contorto e variegato, e non possono mancare rallentamenti e break sludgeggianti caratterizzati da grigia psichedelia.

Altro pezzo forte è l’oscura e cadenzata "Vacuity", da cui è stato estratto un suggestivo videoclip. Suoni tribali introducono "The Art of Dying", altra gioiello griffato Gojira, dieci minuti in cui il gruppo viaggia praticamente a ogni velocità possibile e dove è facile perdere subito il conto di tutti i continui cambi tempo presenti, fino alla malinconica e avvilente melodia di chitarra effettata dell’outro.

Ottima anche la magnetica opener "Oroborus", ispirata dall’arcaico e multietnico simbolo esoterico dell’oroboro, il quale rappresenta un serpente posto in posizione circolare intento a mangiarsi la coda, a voler rappresentare la diabolica recidività con cui l’uomo attraverso le epoche continua a commettere gli stessi errori.

Destano interesse anche le sperimentazioni intraprese con "A Sight to Behold", con i suoi synth iniziali e il vocoder robotico adottato da Joe Duplantier. La devastante "Adoration for None" è il pezzo più diretto dell’album, una mazzata sui denti, dove vi è la partecipazione di Randy Blythe dei Lamb of God (altro loro grande estimatore assieme a Cavalera) impegnato a duettare con Duplantier e formare un’alchimia incontenibile.

Impeccabile la produzione, ad opera dello stesso gruppo con la partecipazione di Logan Mader come co-producer, che ricordiamo come ex chitarrista dei Machine Head nella prima fase della loro carriera. L’album è stato registrato nello studio di proprietà dei fratelli Duplantier sotto la loro supervisione, mentre Mader si è occupato della registrazione delle parti di batteria nel suo studio californiano, del mixaggio e del mastering.

La popolarità del gruppo aumentò anche grazie al fatto di essersi guadagnati l’opportunità di aprire i concerti di Metallica, Machine Head, Lamb of God e in tempi più recenti anche Alter Bridge e Avenged Sevenfold.

I Gojira erano chiamati a dare conferme dopo aver fatto il botto con il precedente album, e non hanno fallito la missione: se è vero che la perfezione assoluta non esiste, è vero anche che a questo giro hanno fatto tutto quello che era in loro potere per avvicinarvisi.

- Supergiovane

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