sabato 13 ottobre 2018

Billy Joel: "52nd Street" (1978)

Il 13 ottobre di quarant'anni fa esce "52nd Street", probabilmente il miglior disco dell'artista newyorchese Billy Joel. Un disco di pop rock variegato, con influenze che vanno dagli anni cinquanta a Springsteen passando per il jazz.




(disco completo disponibile qua: https://www.youtube.com/playlist…)

Billy Joel è uno degli autori dell'era del rock classico più odiato dagli alternative e punk: non fa musica particolarmente innovativa od originale, non è particolarmente profondo, non è né un intellettuale né un ribelle e tantomeno un rivoluzionario. Per molti versi, Billy Joel è l'epitome di un artista newyorchese ebreo mediocre eppure di enorme successo: e tutto questo risulta insopportabile almeno a tanti quanti quelli che lo adorano. Ma perché in tanti lo adorano?

Beh, proviamo a capirlo. Non sempre Joel raggiunge l'aurea mediocritas oraziana, ma quando lo fa, il suo pop rock beneficia di diversi aspetti: è molto facile senza essere stupido, anzi, è anche piuttosto intelligente; ed è suonato in maniera estremamente professionale e personale; anzi, probabilmente è fra il poco pop rock professionale di quegli anni a eludere il sound losangelino che si basa sui sessionman della Wrecking Crew e dei Toto e che si sente ormai ben radicato nei dischi di Steely Dan, Jackson Browne, Warren Zevon, Eagles, Fleetwood Mac. La band di Joel è ben rodata, e nonostante qualche sessionman e qualche ospite, il cuore della produzione è nelle mani di Joel (pianista e tastierista), Doug Stegmeyer (basso e voce), Liberty DeVitto (batteria), Richie Cannata (sax, clarino, organo) e Steve Khan (chitarre e voce), a tutto beneficio di una sonorità complessiva coesa e coerente.

Aggiungiamo al mix che Billy, di ritorno da un paio d'anni da Los Angeles, ha aggiunto alla sua tavolozza, un tempo basata quasi solo sui colori di Elton John e Bob Dylan, anche il jazz pop alla Chicago (due dei cui membri compaiono ai cori nella famosa "My life") e certo funk pop con il precedente disco "The Stranger".

Qui, oltre ad aumentare le influenze jazz, ben rappresentate dal capolavoro del disco, la creativa "Zanzibar", in cui troviamo alla tromba e al flicorno il jazzista Freddie Hubbard, Joel inizia a flirtare col sound alla Bruce Springsteen, firmando una fantastica "Until the Night" che il cantante e pianista modella su certe ballate epiche degli album "Born to Run" e "Darkness on the Edge of Town" del Boss.

A parte questi due capolavori, spicca l'ottimo, aggressivo rock and roll "Big Shot"; mentre "Honesty" e "My life", i due singoli di maggiore successo del disco, pur essendo ottimamente confezionati, il primo a riprova della natura sentimentale (e non romantica) di Joel, il secondo in formato quasi da feelgood song, sono roba solo per veri amanti del pop.

Il resto del disco si difende bene: senza arrivare a queste vette, contribuisce a confermare Joel come un artista di primo piano del pop rock corporativo e a rendere "52nd Street" probabilmente il migliore disco della carriera di questo rispettabile, creativo e intelligente musicista.

"52nd street" è un prodotto assolutamente meritevole di stare nelle collezioni di tutti coloro che non si sentono in colpa ad ascoltare un disco in cui tutte le canzoni hanno un ritornello. Tipo il sottoscritto.

- Prog Fox

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