venerdì 28 settembre 2018

PJ Harvey: "Is this desire?" (1998)

Il 28 settembre 1998, a tre anni dal capolavoro "To bring you my love", PJ Harvey pubblica un disco più riflessivo e meno strabordante eppure sempre di vivo interesse: "Is this desire?"



(disco completo qui: https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_ncGpcXRtFLkDmbvxs_F1zHOu1EAeEp6D8)

Apparsa come portatrice insana di vitali e primitivi istinti - irrinunciabile, ammaliante e vorace - PJ Harvey graffia con lame taglienti la superficie del rock delle fine degli anni 90.

Sesso, umori, urla, carne, latex, occhiali neri da doposbornia: il punk, certo, ma anche una particolare dimensione del proprio rapporto con i sensi e il corpo.

I legami con le sacerdotesse Smith e Joplin sono scontati quanto forse errati: non a caso tutte le note biografiche associano più significativamente il primo periodo creativo di PJ ad una vicinanza spirituale e materiale con Nick Cave ed con un concetto quasi nichilistico e sepolcrale dell'atto artistico.

Ma, detto questo, ciò che la Harvey ci scarica addosso nei primi dischi è talento assoluto, è necessaria forza espressiva.
PJ si offre e si apre, absit iniuria, all'ascoltatore in modo quasi scarnificato ed ossessivo, senza però sfociare nell'assurdo, nella caricatura, nell'inascoltabile e nel (qualitativamente) impresentabile.

Se con il capolavoro "To Bring You My Love" PJ arriverà a normalizzare (diciamo così) il tutto ed a quietare formalmente gli istinti primordiali, offrendo una facciata di seta e boccoli ad un sottobosco che continua comunque a pullulare di tormenti ed orrori dell'animo, nel 1998 la nostra regalerà al pubblico "Is This Desire?".
Languida coperta che avvolge le ferite ancora aperte ma in cui ci si corica con aspetto nuovo: come al solito sono le copertine dei dischi a darci la temperatura della febbre ed in questo caso la ragazza del Dorset si presenta come una candida country girl, forse solo un po' alternativa ed inquieta.

Si tratta di maturità? Di raffreddamento?
Ad ascoltare il primo ed avvincente singolo - "A Perfect Day Elise" - si comincia ad avere qualche indizio: rock, con matrice più synth/elettronica che punk e narrazioni come al solito sospese ed inquietanti.
Una PJ quindi normalizzata? Si direbbe una PJ sicuramente diversa, con il desiderio di battere strade nuove ma senza avere perso il cuore cupo; semmai, ecco, la pece è incalata in rivoli che prendono il via da fascinazioni estetiche e letterarie, più che da nervose intuizioni spontanee.
A ben guardare, infatti, ancora di più rispetto a "To Bring..", il tema centrale è oscuro e malsano: si rincorrono nomi ignoti ma evocativi (Catherine, Elise, Angeline) e luoghi/situazioni di primigenio ed inquieto legame (il vento, il giardino, l'immancabile fiume, la stanza d'albergo chiusa).
Il pezzo più bello del lotto è sicuramente "The River": complesso, maturo, commovente. E' il rito di passaggio da sciamana istintiva e carnale a sacerdotessa compiuta e consapevole dei propri mezzi.
"The Wind" e "The Garden" sono battiti del cuore dark, sussurrati all'orecchio da un diavolo nella notte; "No Girl So Sweet" e "The Sky Lit Up" le fucilate più propriamente rock e liberatorie.

La title track merita una nota a parte: è un movimento dell'animo, accennato e doloroso, perfetta chiusa del cammino e dell'invocazione alle muse.
I tagli inferti finora meritano una riflessione, quasi biblica ed ancestrale: ci si chiede se questo anelito ineluttabile sia desiderio, se ci eleverà a sufficienza (To lift us higher/ to lift above?) o se ci lascerà qui inchiodati a terra.

La maestra di cerimonia ci abbandona e ci lascia in sospeso, non dà risposte ma ci consegna domande e - come suo abitudine - si toglie di scena.
Per ripresentarsi, la attendiamo, con un nuovo vestito e con un nuovo libro delle preghiere.

- il Compagno Folagra

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