Dopo
l'eccellente esordio di "Pink Flag", i Wire proseguono il discorso che
li pone all'avanguardia del post punk con lo stupendo "Chairs Missing",
che si gioca col successivo "154" del 1979 la palma di migliore disco
della formazione.
Colin Newman (voce, chitarra), Bruce Gilbert (chitarra) e Graham Lewis (basso) compongono
(da soli o in coppia) tutte le canzoni dell'album, sfogando paranoia e
alienazione in un distillato musicale delle loro turbe psichiche,
appoggiati in questo dal batterista Robert "Gotobed" Gray e dal
produttore e musicista aggiunto Mike Thorne, che regala una bella patina
di sintetizzatori glaciali e robotici, sicuramente parto della mente di
uno che si è ascoltato troppo i primi dischi degli Ultravox.
Rispetto al primo album, fatto tutto quasi solo di abbozzi brevissimi di
forma più punk, qui ci sono anche canzoni più lunghe, che ricordano
stranamente i Pink Floyd di Syd Barrett ("Mercy", prima canzone del lato
B, è uno dei pinnacoli del disco).
Tra i pezzi che spaccano
tutto ci sono soprattutto "Practice makes perfect", roba tra il
minimalismo e l'isterico, il colpo di coda punk della conclusiva "Too
late", l'ossessiva, sarcastica "I am the fly" (quasi un archetipo di
tantissimo pop britannico successivo - un terzo della carriera dei Franz
Ferdinand parte da qui); e la band non si vergogna neanche di buttarsi
sul power pop quasi patinato con quella delizia di "Outside Miner".
Negli USA avevano già avuto abbastanza successo i Talking Heads, che
come i Wire avevano un passato da studenti d'arte all'università, ma
"Chairs Missing" fu uno degli album che fece comprendere anche in
Inghilterra che la new wave e il post punk erano qualcosa di diverso dal
punk, e che la pretesa di fare arte con il punk non era affatto una
sciocchezza.
Anche solo per questo, dovremmo esserne grati ai Wire.
- Red
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