Se
si dovesse tracciare una linea immaginaria che partisse da David Bowie e
incontrasse i Fugazi lungo la strada, da qualche parte si scontrerebbe –
e di brutto – con gli At The Drive In, per la capacità di questi ultimi di agire ruvidi e spigolosi e nonostante questo rimanere
credibili pur sconfessandosi di continuo, aprendosi al mondo e
mettendosi a nudo cambiando maschera a piacimento e con disinvoltura.
Nel 1998 gli At The Drive In pubblicano il loro secondo album in studio “In/Casino/Out”, scritto e registrato in (di) fretta ma più curato dei primi lavori; mantiene un carattere di presa diretta che rimarrà sempre la cifra della band.
L’evocazione di un mood che può essere riassunto in “sto male, o comunque potrei star meglio” presente nei testi si sposa perfettamente
col carattere di un ritmo mutevole che scrive nuove regole senza
firmarle e che disattende con coscienza.
Troviamo impeti
rock-hardcore e melodie ricercate, fortunatamente niente ballate e
occhiolini, neanche le derivazioni punk sono aggiustamento o ricerca di
equilibrio ed è proprio qui che gli At The Drive-In danno il meglio.
Gli strumenti e le voci si alternano saltandosi addosso come le onde del mare, rubandosi la scena l’un l’altro e ricacciando il resto sullo sfondo in modo tale da lasciare un senso di scossone permanente. Questo si nota soprattutto nei loro pezzi più caratteristici come "Napoleon Solo", "Pickpocket" o "Chanbara", nei quali il testo apparentemente di troppo aiuta a dissezionare la canzone e a servirla cruda fino ad usare le urla come oggetto concreto immaginandole come aria fresca che spintona e scuote.
Gli ATD-I presentano un lavoro sincero e appassionato che ancora oggi stende e cerca di divincolarsi dai riferimenti e dall’ingombro di accostamenti a generi e sottogeneri, preoccupandosi soprattutto di far muovere il corpo, la testa, la pancia, le mani.
- Piro
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