giovedì 5 luglio 2018

Slayer: "South of Heaven" (1988)

5 luglio del 1988, a meno di due anni di distanza dall’acclamato "Reign in Blood", viene pubblicato "South of Heaven", quarto lavoro da studio dei mastri thrasher californiani Slayer, impersonificati fisicamente da Tom Araya, Kerry King & Jeff Hannemann e Dave Lombardo, nella loro formazione classica. 






Non era affatto facile soddisfare le aspettative derivate dal precedente masterpiece, che tutt’ora resta in assoluto uno dei più significativi prodotti del metal, ma i risultati sono altamente soddisfacenti. "South of Heaven" difatti andrà a essere il secondo tassello del trio del meraviglie del gruppo, composto appunto oltre che dal suddetto lavoro e dal precedente anche dal seguente "Season in the Abyss".

Pochissimi gruppi sono stati capaci di azzeccare tre album di fila di questa caratura, men che meno la stessa band, la quale non si avvicinerà mai più durante il resto della sua onorata carriera a questi livelli.

"Reign in Blood" era stato uno degli album più estremi e feroci di quel periodo, produrre qualcosa di ancora più estremo era pressoché impossibile, Araya e soci ne erano consapevoli. La soluzione verso cui optarono fu quella di tirare il freno a mano. Meno riff serrati, meno forsennati tu-pa tu-pa tu-pa in quattro quarti, meno ritmiche al fulmicotone, stavolta il gruppo, e nella fattispecie Hanneman che di "South of Heaven" è il principale autore (a differenza di "Reign in Blood" dove era King a tirare maggiormente i fili), opta per tempi più controllati e dal voltaggio ridotto, senza intaccare e snaturare minimamente quella che è la propria indole compositiva. Il pezzo d’apertura, che da il nome al disco, ne è il perfetto esempio: magistrale up-tempo introdotto da un macabro e sinistro riff che alterato di tono ne diventa poi quello portante, una sezione ritmica dinamica guidata dietro le pelli da un Lombardo che rispetto a "Reign in Blood" appare notevolmente evoluto in quanto a varietà di soluzioni e estro compositivo, Hannemann e King si avvicendano e si sfidano in quelle sequenze di assoli, i duel guitar solo fra i due sono una delle più riconoscibili peculiarità. Pezzo leggendario che meglio non poteva introdurre il lavoro dal gusto tendenzialmente più doomy del quartetto di Los Angeles.

Ora però bisogna prepararsi a premere sul pulsante di azionamento headbanging, segue "Silent Scream", una rasoiata micidiale con doppia cassa a ciocco che rievoca gli sfrenati fasti di "Reign in Blood", Araya indiavolato, Lombardo che mena fendenti come un dannato, la coppia di asce che si diletta in riff e soli esplosivi. Senza dubbio il pezzo del disco dove la band tiene maggiormente il piede sul pedale dell’accelleratore, un altro pezzo memorabile che va ad arricchire l’ampio repertorio del gruppo e che verrà proposto e riproposto spesso in sede live. Torniamo ad abbassare i ritmi, "Live Undead" è un altro up-tempo molto dinamico e meno cadenzato dell’opener, dove bisogna segnalare una repentina accelerata nel formidabile ultimo minuto il quale rappresenta uno dei momenti più memorabili dell’intero lavoro. Di nuovo l’apporto di Lombardo è davvero stupefacente.

Segue "Behind the Crooked Cross", song che si muove grossomodo sulle stesse coordinate, mostrando un songwriting improntato a rendere le composizioni più orecchiabili rispetto al passato, strizzando l’occhio a un riffing maggiormente orientato verso la melodia (oddio, utilizzare i termini “orecchiabile” e “melodico” nel descrivere un pezzo degli Slayer provoca sempre un senso d’orticaria, ma la varietà degli aggettivi che offre il vocabolario non è sconfinata e le graduazioni di melodia sono parecchie, quindi per questa volta chiudiamo un occhio e rendiamo il compito facile a chi scrive e chi legge), episodio certamente gradevole ma qualche spanna sotto a quanto sentito finora.

Arriva il turno di "Mandatory Suicide", l’altro grande classico del disco assieme a "South of Heaven", canzone contraddistinta (una volta tanto) da un buon testo che rievoca la tragica epopea dei marines in Vietnam, finora mai come in questo caso gli Slayer accantonano parzialmente la violenza che li ha sempre contraddistinti a favore di un mid tempo carico di drammaticità fra break improvvisi e un finale in crescendo in cui aumenta il climax doloroso e rabbioso del pezzo. Gran parte del merito va ad Araya, anch’esso notevolmente migliorato nella stesura delle proprie linee vocali. Il gruppo alza immediatamente il tiro con "Ghosts of War", ennesimo pezzo clamoroso nonché uno dei più sottovalutati non solo del lavoro in questione ma della loro intera carriera. Intro in mono che riprende la parte finale del loro classico "Chemical Warfare", e via che si parte a razzo con un puro thrash slayerano senza compromessi ricco di accelerazioni, decelerazioni, breakdown e ripartenze nonché dotato di uno dei refrain più azzeccati del gruppo e un’evocativa parte finale da brividi.

Tutto molto bello, fin qui. Ahinoi, i due pezzi seguenti, "Read Between The Lies" e "Cleanse The Soul" suonano abbastanza anonime e non impressionano come quanto abbiamo sentito finora. Ci pensa "Dissident Aggressor", griffata Judas Priest, a rialzare il livello di interesse, trattasi di una cover alquanto fedele all’originale a cui viene apportata qualche piccola modifica qua e là e personalizzata a dovere, operazione riuscita, ma pur sempre di una cover stiamo parlando.

Dopo il vistoso calo, il compito di calare il sipario in modo dignitoso spetta a "Spill the Blood", e qua gli Slayer chiudono esattamente come avevano cominciato, con una canzone satura di spirito doom, molto suggestivamente inquietante il riffing e il testo, il tutto interamente a opera di Hannemann, i livelli della title track sono lontani, ma è una buona chiusura.

E quindi, a due anni da quello che è considerato il loro apice, gli Slayer fanno un figurone anche adagiandosi su ritmi più sostenuti. E pur se non si tratta di un lavoro che raggiunge la perfezione, anche stavolta ci avviciniamo dannatamente.

- Supergiovane

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