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luglio del 1988, a meno di due anni di distanza dall’acclamato "Reign
in Blood", viene pubblicato "South of Heaven", quarto lavoro da studio
dei mastri thrasher californiani Slayer, impersonificati fisicamente da
Tom Araya, Kerry King & Jeff Hannemann e Dave Lombardo, nella loro
formazione classica.
Non era affatto facile soddisfare le aspettative derivate dal precedente masterpiece, che tutt’ora
resta in assoluto uno dei più significativi prodotti del metal, ma i
risultati sono altamente soddisfacenti. "South of Heaven" difatti andrà a
essere il secondo tassello del trio del meraviglie del gruppo, composto
appunto oltre che dal suddetto lavoro e dal precedente anche dal
seguente "Season in the Abyss".
Pochissimi gruppi sono stati
capaci di azzeccare tre album di fila di questa caratura, men che meno
la stessa band, la quale non si avvicinerà mai più durante il resto
della sua onorata carriera a questi livelli.
"Reign in Blood"
era stato uno degli album più estremi e feroci di quel periodo, produrre
qualcosa di ancora più estremo era pressoché impossibile, Araya e soci
ne erano consapevoli. La soluzione verso cui optarono fu quella di
tirare il freno a mano. Meno riff serrati, meno forsennati tu-pa tu-pa
tu-pa in quattro quarti, meno ritmiche al fulmicotone, stavolta il
gruppo, e nella fattispecie Hanneman che di "South of Heaven" è il
principale autore (a differenza di "Reign in Blood" dove era King a
tirare maggiormente i fili), opta per tempi più controllati e dal
voltaggio ridotto, senza intaccare e snaturare minimamente quella che è
la propria indole compositiva. Il pezzo d’apertura, che da il nome al
disco, ne è il perfetto esempio: magistrale up-tempo introdotto da un
macabro e sinistro riff che alterato di tono ne diventa poi quello
portante, una sezione ritmica dinamica guidata dietro le pelli da un
Lombardo che rispetto a "Reign in Blood" appare notevolmente evoluto in
quanto a varietà di soluzioni e estro compositivo, Hannemann e King si
avvicendano e si sfidano in quelle sequenze di assoli, i duel guitar
solo fra i due sono una delle più riconoscibili peculiarità. Pezzo
leggendario che meglio non poteva introdurre il lavoro dal gusto
tendenzialmente più doomy del quartetto di Los Angeles.
Ora
però bisogna prepararsi a premere sul pulsante di azionamento
headbanging, segue "Silent Scream", una rasoiata micidiale con doppia
cassa a ciocco che rievoca gli sfrenati fasti di "Reign in Blood", Araya
indiavolato, Lombardo che mena fendenti come un dannato, la coppia di
asce che si diletta in riff e soli esplosivi. Senza dubbio il pezzo del
disco dove la band tiene maggiormente il piede sul pedale
dell’accelleratore, un altro pezzo memorabile che va ad arricchire
l’ampio repertorio del gruppo e che verrà proposto e riproposto spesso
in sede live. Torniamo ad abbassare i ritmi, "Live Undead" è un altro
up-tempo molto dinamico e meno cadenzato dell’opener, dove bisogna
segnalare una repentina accelerata nel formidabile ultimo minuto il
quale rappresenta uno dei momenti più memorabili dell’intero lavoro. Di
nuovo l’apporto di Lombardo è davvero stupefacente.
Segue
"Behind the Crooked Cross", song che si muove grossomodo sulle stesse
coordinate, mostrando un songwriting improntato a rendere le
composizioni più orecchiabili rispetto al passato, strizzando l’occhio a
un riffing maggiormente orientato verso la melodia (oddio, utilizzare i
termini “orecchiabile” e “melodico” nel descrivere un pezzo degli
Slayer provoca sempre un senso d’orticaria, ma la varietà degli
aggettivi che offre il vocabolario non è sconfinata e le graduazioni di
melodia sono parecchie, quindi per questa volta chiudiamo un occhio e
rendiamo il compito facile a chi scrive e chi legge), episodio
certamente gradevole ma qualche spanna sotto a quanto sentito finora.
Arriva il turno di "Mandatory Suicide", l’altro grande classico del
disco assieme a "South of Heaven", canzone contraddistinta (una volta
tanto) da un buon testo che rievoca la tragica epopea dei marines in
Vietnam, finora mai come in questo caso gli Slayer accantonano
parzialmente la violenza che li ha sempre contraddistinti a favore di un
mid tempo carico di drammaticità fra break improvvisi e un finale in
crescendo in cui aumenta il climax doloroso e rabbioso del pezzo. Gran
parte del merito va ad Araya, anch’esso notevolmente migliorato nella
stesura delle proprie linee vocali. Il gruppo alza immediatamente il
tiro con "Ghosts of War", ennesimo pezzo clamoroso nonché uno dei più
sottovalutati non solo del lavoro in questione ma della loro intera
carriera. Intro in mono che riprende la parte finale del loro classico
"Chemical Warfare", e via che si parte a razzo con un puro thrash
slayerano senza compromessi ricco di accelerazioni, decelerazioni,
breakdown e ripartenze nonché dotato di uno dei refrain più azzeccati
del gruppo e un’evocativa parte finale da brividi.
Tutto molto
bello, fin qui. Ahinoi, i due pezzi seguenti, "Read Between The Lies" e
"Cleanse The Soul" suonano abbastanza anonime e non impressionano come
quanto abbiamo sentito finora. Ci pensa "Dissident Aggressor", griffata
Judas Priest, a rialzare il livello di interesse, trattasi di una cover
alquanto fedele all’originale a cui viene apportata qualche piccola
modifica qua e là e personalizzata a dovere, operazione riuscita, ma pur
sempre di una cover stiamo parlando.
Dopo il vistoso calo, il
compito di calare il sipario in modo dignitoso spetta a "Spill the
Blood", e qua gli Slayer chiudono esattamente come avevano cominciato,
con una canzone satura di spirito doom, molto suggestivamente
inquietante il riffing e il testo, il tutto interamente a opera di
Hannemann, i livelli della title track sono lontani, ma è una buona
chiusura.
E quindi, a due anni da quello che è considerato il
loro apice, gli Slayer fanno un figurone anche adagiandosi su ritmi più
sostenuti. E pur se non si tratta di un lavoro che raggiunge la
perfezione, anche stavolta ci avviciniamo dannatamente.
- Supergiovane
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