sabato 21 luglio 2018

Pain of Salvation: "One hour by the concrete lake" (1998)


Le pagine di C'era una volta il rock tornano ad accogliere uno dei propri gruppi preferiti, gli svedesi Pain of Salvation, fautori di uno dei migliori esempi possibili di prog metal (che a onor del vero con il tempo si è sempre più demetallizzato), dallo stile ineguagliabile e inconfondibile nonostante le loro molteplici trasformazioni, per festeggiare il ventennale del loro secondo lavoro, "One Hour by the Concrete Lake". 


I nostri lettori più fedeli ricorderanno la recensione del loro esordio assoluto, "Entropia", pubblicata lo scorso anno, in occasione del ventennale della prima tiratura del disco in distribuzione limitata… Daniel Gildenlöw e soci (ma soprattutto Gildenlöw ) non se ne sono stati certo a dormire sugli allori, e a distanza di un annetto, ecco arrivare il loro secondo prodotto intitolato "One Hour by the Concrete Lake", naturale proseguimento di quanto realizzato con "Entropia".

A dirla tutta, è l’unico album della band nativa di Eskilstuna che da un senso di continuità a quanto fatto in precedenza, a differenza del resto della loro carriera, nella quale ogni album ha rappresentato un rinnovamento e un punto di rottura con il passato.

Va segnalato l’abbandono di Daniel Magdic, spalla di Gildenlöw, il quale lasciò il gruppo in termini amichevoli a ridosso del periodo di registrazione, perdita significativa in quanto Magdic era stato co-autore del gruppo e pure alcuni dei pezzi più rappresentativi di "One Hour by the Concrete Lake" portano anche la sua firma. Sapendo quanto sia storicamente poco propenso Daniel Gildenlöw ad affidare l’aspetto compositivo dei pezzi ad altri, possiamo facilmente immaginare quanto questo split abbia influito sulla futura direzione artistica della band.

Comunque sia, Magdic venne rimpiazzato da Johan Hallgren, che è divenuto col tempo fedele socio di Daniel: escluso quest’ultimo, naturalmente, Hallgren è colui che vanta il maggior numero di anni di militanza nel gruppo (e l’unico ad esserne prima uscito, e poi rientrato, in tempi recenti). Hallgren diventa importante per Daniel e l’alchimia del gruppo per l’apporto nei cori e le voci di supporto (le polifonie vocali diverranno seguentemente una caratteristica irrinunciabile per la band) piuttosto che per il suo contributo in fase di songwriting, su cui non ha mai messo mano.

Resta invariata la rimanente lineup, con il fratello Kristoffer al basso, Fredrik Hermansson a tastiere e synth e Johan Langell alla batteria.

Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a un concept album, suddiviso sempre in tre capitoli. L’esordio trattava temi socio – politici, narrando di un uomo che pieno di speranze e illusioni emigrava assieme alla sua famiglia verso la città fittizia di "Entropia", la quale si sarebbe poi rivelata una grande menzogna. "One Hour by the Concrete Lake" tratta i medesimi temi, espandendoli al contesto bellico e ambientalista: il protagonista è sempre un uomo, operante nel settore delle armi, che in preda a una crisi esistenziale rinnega il proprio operato e si mette in viaggio alla ricerca di qualcosa che possa dare un senso alla propria esistenza.

Il titolo, letteralmente "Un’ora presso il lago di cemento", è riferito al lago Karachay, situato nella Russia mediorientale, che venne utilizzato a partire dall’inizio della guerra fredda dall’ex Unione Sovietica come discarica di scorie radioattive e poi interamente cementato per impedire ai sedimenti di spostarsi. Secondo gli studi di settore, è il luogo più inquinato del pianeta e la zona che lo circonda è quella che presenta il maggior tasso di radioattività al mondo, tanto che - secondo un rapporto stilato nel 1990 - il livello di scorie nucleari è talmente letale che basterebbe un'ora presso il lago per uccidere un uomo.

Come detto, il disco è suddiviso in tre capitoli: dopo una breve intro, "Spirit of the Land", comincia il chapter one, sottotitolato "Part of the Machine". Il protagonista realizza di essere solamente un piccolo ingranaggio che contribuisce a mettere in moto “la grande macchina”. Il capitolo viene aperto con "Inside", song diretta e scorrevole, Daniel e la tastiera di Hermansson (ma che suoni grossolani però cavolo) ne sono i protagonisti, soprattutto nella variegata parte finale dopo un soffuso break. È arrivato il turno di "The Big Machine", a parere di chi scrive l’apice del disco, i ritmi sono estremamente cadenzati e la sezione ritmica è nettamente più lineare del solito, ne sfocia un pezzo carico di pathos gothicheggiante, la prestazione vocale è sbalorditiva, sia dal lato interpretativo che tecnico, Daniel raggiunge vette negli acuti che mai aveva raggiunto prima e che mai raggiungerà poi durante la sorta di mantra 'What if we lose control?' che ripete estenuamente, molto suggestivi anche i cori simil-bolscevichi che lo accompagnano nelle prime strofe. "New Year’s Eve" è l’ultima tappa del primo capitolo, totalmente made by Gildenlöw a differenza dei due precedenti dove Magdic figurava come co-autore. Assieme a "The Big Machine" è probabilmente l’episodio migliore dell’opera, ne mantiene l’atmosfera cupa e darkeggiante, chi ha a cuore i Pain of Salvation più tecnici e intricati rimarrà estremamente soddisfatto dall’uso delle poliritmie adottate in questo pezzo, eccellente il lavoro di Kristoffer e di Langell dietro le pelli, potrebbe essere superfluo ma lo diciamo lo stesso, Daniel offre un’altra grandissima prova ricca di passionalità, e azzecca un ritornello memorabile, il protagonista del racconto decide di dare un taglio netto a quello che era la sua esistenza, e cambiare radicalmente la propria vita.

Secondo capitolo, Spirit of Man. Uno sguardo profondo su quelle che sono effetti e conseguenze di quanto prodotto dalla grande macchina. Ottima Handful of Nothing, eretta su sincopi, riff stoppati e synth che ancora una volta conferiscono quell’atmosfera oscura che pervade l’intero lavoro, molto meno bravo è Langell, che stavolta offre una prestazione piuttosto piatta e priva di inventiva. Ma fortuna che c’è sempre Daniel. Nel complesso, l’ennesimo highlight del disco. Qualche spanna sotto ma comunque rimarchevoli sono le seguenti Water e Home, la prima un mid tempo più solare rispetto al resto del disco in cui si segnala anche un notevole assolo (guarda caso anche qui Magdic porta la sua firma), la seconda un pezzo dotato di vari cambi di tempo e mood, a parti veloci si alternano intermezzi celestiali (precursori di sonorità che potremo sentire successivamente su The Perfect Element e Remedy Lane) e anche qui è presente un pregevole assolo, meno tecnico e più sul gusto melodico d’atmosfera.

Arriviamo al terzo capitolo, intitolato Karachay, il lago di cemento. Il protagonista girando il mondo, si ritrova alle Black Hills, titolo di questo pezzo e nota catena montuosa del sud Dakota negli states, luogo dove i nativi sono stati sfrattati dai pionieri e dai cercatori d’oro nel’800, zona in cui ora vengono raccolti minerali e dove sono presenti basi militari statunitensi. Ritmi esotici e tribaleggianti sorreggono un pezzo così così, eccessivamente prolisso e senza particolari spunti, siamo abituati a sentire di meglio dai Pain of Salvation. Fortunatamente ci risolleviamo con la seguente "Pilgrim", fervida e raffinata ballad semiacustica resa ancora più armoniosa dall’accompagnamento di un violoncello. La successiva "Shore Serenity", composizione in stile musical che riprende parte del climax di "The Big Machine", funge da accompagnamento verso la conclusiva "Inside Out", dove il protagonista raggiunge le rive del lago. "Inside Out" è uno di quei pezzi che pò esse fero o pò esse piuma. Tempi rapidissimi che viaggiano a velocità mai raggiunte del gruppo si alternano a break e sequenze soffuse che mettono in risalto il lato emozionale del gruppo. Una chiusura degna di un ottimo album. Il tutto racchiuso in 60 minuti totali, compresa la ghost track che segue "Inside Out" che riprende i versi di Pilgrim.

Dopo un’ora di riflessioni in piedi dinnanzi al lago di cemento risulterebbe più facile rendersi conto delle piaghe e dei mali che attanagliano il mondo e il genere umano, dovreste provarci anche voi… Da rivedere l’artwork, niente di memorabile, e soprattutto la produzione, a dirla tutta una sistematica pecca dei loro primi quattro lavori, anche se rispetto all’esordio il mixaggio ha compiuto progressi. Daniel Gildenlöw ha sempre dichiarato che questo è il proprio disco che ama di meno, e anche noi, se proprio dovessimo indicare il lavoro meno bello dei Pain of Salvation, sceglieremmo "One Hour by the Concrete Lake", il meno bello fra i primi quattro perlomeno.

Ma comunque sia, si tratta, oltre che a di un gran bell’album con metà dei pezzi davvero notevoli, anche del disco che ha permesso ai Pain of Salvation di farsi conoscere al mondo e a far riscoprire pure "Entropia", il quale, complice una distribuzione inadeguata, ha stentato parecchio prima di riscuotere i favori del pubblico. Fu anche per merito di "One Hour by the Concrete Lake" se finalmente vennero ingaggiati dalla Inside Out Music (guarda te le coincidenze della vita…) che si prese l’onore di ristampare l’esordio e ridistribuirlo in modo da rendergli il giusto merito.

- Supergiovane

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