sabato 9 giugno 2018

Slayer: "Diabolus in Musica" (1998)

Nove di giugno anno 1998, gli Slayer dopo un silenzio di quattro anni dall’ultimo album di inediti pubblicano un disco nuovo di zecca, "Diabolus in Musica". L’album è considerato dai più come il punto più basso della loro carriera, ma dato che solo gli impavidi e i coraggiosi osano andare controcorrente, questa volta toccherà a C’era una volta il rock (nelle vesti fisiche del recensore che, a proprio rischio e pericolo, sarà magnanimo e non mancherà di sottolineare i punti di forza dell’album) andare controcorrente.



Diciamo subito che invece Diabolus in Musica è tutto sommato un bel lavoretto, godibile e ben prodotto, che fa quello che gli Slayer sanno fare da sempre: spaccare il culo.

A scanso di equivoci, però, dobbiamo anche dire che non regge minimamente il confronto con la loro discografia che va dal 1983 al 1990: quella è davvero troppe spanne sopra, inarrivabile per gli Slayer stessi, il resto della loro carriera, o meglio dire, discografia, si è sempre contraddistinta come altalenante e zoppicante.

Andiamo con ordine e tracciamo un breve compendio della storia degli Slayer: "Show No Mercy" segna un ottimo esordio, seguito dall’lp "Live Undead" e dall’ottimo "Hell Awaits", da qui in poi escono a cadenza biennale "Reign in Blood", "South of Heaven" e "Season in the Abyss", un trio di album considerati capolavori assoluti del gruppo losangelino e capisaldi imprescindibili del thrash metal, di quello più cazzuto e martellante che esista.

Dopo l’apice, comincia la parabola discendente: gli Slayer devono fare i conti con l’abbandono del batterista storico Dave Lombardo, rimpiazzato con Paul Bostaph; dopo uno stallo durato quattro anni tornano alla ribalta con "Divine Intervention", tutt’altro che un brutto disco, differente da quanto composto finora: nonostante sia strumentalmente valido e non manchino frangenti esaltanti, il senso di incompiutezza è forte (pure in pezzi fondamentalmente buoni quali "Serenity in Murder" e "Killing Fields"), forse il gruppo non sapeva ancora bene dove andare a parare in quanto a direzione stilistica.

Due anni dopo esce l’album di cover punk e hardcore "Undisputed Attitute" e altri due anni dopo eccoci arrivare a "Diabolus in Musica". Se nel precedente "Divine Intervention" le redini del songwriting erano state affidante a Kerry King, a questo giro è Jeff Hannemann a occuparsi quasi esclusivamente della stesura dei pezzi. Con il solito Rick Rubin come producer.

La parola d’ordine è una sola: rinnovamento. Senza stravolgere la propria attitudine compositiva, ma rinfrescandola e ammodernandola, adeguandosi restando al passo con i tempi che cambiano. E ciò il barbuto Rubin lo sa bene, lui che non si fa problemi a essere il produttore degli Slayer come anche di Red Hot Chili Peppers, di System of a Down come anche Johnny Cash, di Audioslave come anche Shakira…e in tempi recenti addirittura Jovanotti (le nostre condoglianze Rick…).

"Diabolus in Musica" parte forte, ma davvero forte: il trio iniziale composto da "Bitter Peace", "Death’s Head" e la mirabolante "Stain of Mind" (quest’ultima una delle migliori composizioni degli Slayer post ’90 e uno dei pochi pezzi “moderni” che regge il confronto con i vecchi evergreen) è formidabile, il gruppo martella di brutto in 2/4 come ai bei vecchi tempi, riff assassini, cambi tempo, stop and go, breakdown, e un Araya indiavolato nettamente progredito in quanto a versatilità vocale, sapientemente coadiuvato da filtri e valorizzato in fase di post produzione da Rubin. Azzarderei quasi a dire che in questi tre pezzi offre il meglio di quanto sia riuscito a dare in tutta la carriera, non soltanto facendo vibrare le sue potenti corde vocali e sputando le tonsille come ci aveva abituato in passato.

Se il resto del disco si attestasse su questi livelli, o perlomeno poco al di sotto, staremmo parlando dell’indiscusso capolavoro degli Slayer versione 2.0, ma ahinoi la qualità del resto dell’album è decisamente inferiore.

Nei restanti 9 pezzi racchiusi in 35 minuti il gruppo se la gioca più sui mid-tempo piuttosto che su pezzi tirati, pregevole risulta comunque "Overt Enemy" (che recupera perlomeno qualche elemento doomy rimandandoci alla memoria le atmosfere di "South of Heaven"), non malaccio nemmeno "Wicked", contornata dalle sfumature dark wagneriane che hanno reso celebre "Season in the Abyss", anche se il pezzo risulta eccessivamente prolisso.

Non esaltano particolarmente "Perversion of Pain" e "Desire", malgrado qualche inedita sperimentazione. Meglio allora un pezzo quale "In the Name of God", unico pezzo qui presente a firma di Kerry King che non a caso sembra essere uscito direttamente da "Divine Intervention". Bella tosta "Scrum", unico pezzo che in quanto a dinamismo riesce a stare dietro al trittico iniziale.

I dolori arrivano in quei pezzi dove l’inflessione crossover è eccessivamente marcata (per giunta con ritmiche scontate e pacchiane), ovvero in "Screaming for the Sky" e in "Love to Hate", davvero pessima quest’ultima. Chiude "Point", pezzo discreto e abbastanza variegato, con un Bostaph sugli scudi (ottimo il suo apporto in buona parte dei pezzi, a differenza della netta involuzione che il batterista ha mostrato dopo il suo comeback nel gruppo con l’ultimo "Repentless") frapposto fra la nuova anima degli Slayer e le loro radici old school.

Tirando le somme, con "Diabolus in Musica" gli Slayer hanno messo in atto un tentativo di groovizzare il proprio sound, tentativo riuscito a metà ma comunque sia apprezzabile: preso coscienza che i fasti di un tempo sono ormai passati da un po’, è legittimo guardare avanti. Ma come si sa, i metallari e i fan integralisti di vecchia data non sono molto propensi ad accettare di buon grado le sonorità moderne con cui si sposarono molti gruppi sul finire del millennio (e Tommy Lee ne sa qualcosa…), ripudiando questa sorta di svolta, nonostante gli interessanti pregi di cui "Diabolus in Musica" è in possesso.

Alla luce della comparsa dei tanti gruppi di cui adesso non sentiamo affatto la mancanza che qualche anno più tardi cavalcarono l’onda degli Slipknot, nonché dei tentativi più ruffiani e meno autoriali di ammodernizzare le proprie sonorità di illustri colleghi quali Machine Head e Fear Factory, direi che a confronto questo lavoro degli Slayer è oro colato.

- Supergiovane

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