venerdì 29 giugno 2018

Pink Floyd: "A saucerful of secrets" (1968)


Il 29 giugno di cinquant'anni fa usciva "A Saucerful of Secrets", secondo album dei Pink Floyd: quello della transizione fra Syd Barrett (Official) e David Gilmour, unico disco della formazione a cinque della band.

L'album fa parte dell'era underground del gruppo e può risultare ostico a chi ne conosca solo le levigate velleità progressive degli anni settanta, ma non va in alcun modo dimenticato.


(l'album completo si può ascoltare qui: https://www.youtube.com/playlist?list=PLn_HrLivU4eraqCFUNlxVj_V2BmVXiLBe)


Parlare di chi siano i Pink Floyd a te, o avveduto lettore, sarebbe offensivo, quindi eviteremo di citare titoli di dischi, numeri di copie vendute e questo genere di facezie.

Quello con cui abbiamo a che fare oggi, però, è uno dei momenti di passaggio più importanti del rock britannico: quando cioè il diamante pazzo Syd Barret lasciò / fu estromesso dalla sua band, per essere sostituito da un misconosciuto biondino chiamato David Gilmour. Oggi vi portiamo nei meandri di un disco tradizionalmente considerato minore nella discografia dei Floyd: “A saucerful of secrets”.

Ma togliamoci il dubbio: è giusto dire che “A saucerful of secrets” è un disco minore?
La domanda ha una risposta semplice, ma non troppo. Gli mancano di certo le zampate oblique che caratterizzano l’esordio della band; Gilmour non ha ancora trovato il suo ruolo in una band che già vanta due songwriters come Waters e Wright; a loro volta, questi ultimi si trovano a cercare la propria strada nei territori astratti del loro ormai ex-leader, ma non riescono a penetrarli: non è il loro stile, e a partire da qui ne costruiranno uno proprio, verso una direzione (e una carriera) radicalmente diversa.

Con l’eccezione della Watersiana “Set the controls for the heart of the sun”, sontuosa cavalcata in un deserto alieno e psichedelico (e la cui influenza sarà ben
visibile oltre due decenni dopo in un brano come “Higher of the sun” dei Primal Scream), le canzoni di quest’album sono dei prototipi, nei quali a posteriori si
possono trovare le direzioni prese dalla band e, forse, giocare a immaginarne altri.

“Let there be more light” mostra che Waters, pur non essendo un grande bassista, è certamente uno che sa come costruire un ottovolante emotivo, tra l’incalzare del basso elettrico, l’incedere strisciante del verso e l’esplosione ariosa del ritornello.

“Remember a day” d’altro canto è la prima volta in cui la slide guitar di Gilmour si incontra con le tastiere di Wright, un’accoppiata che riserverà qualche sorpresa in futuro (anche se qualcuno ipotizza che sia stato Syd a suonarla - nel qual caso essa rappresentat davvero il punto di contatto fra Barrett e Gilmour; NdR). Sotto la scorza acidissamente rock di “Corporal Clegg” si nasconde una sgangherata marcia militare, pronta a sfilare sotto il Muro più famoso della storia del rock.

Il lato B si apre con una suite strumentale progressive”, nel senso che evolve continuamente lungo i suoi quattro movimenti: il sogno inquieto di “Something Else” si scioglie in un “Syncopated pandemonium”, col drumming evocativo di Mason a reggere la baracca durante la tempesta prodotta da tastiere, chitarre martoriate e bizzarri effetti elettronici squisitamente sixties, per poi collassare nell’intermezzo “Storm Signal”. “Celestial Voices”, al contrario, getta già lo sguardo verso i paesaggi sonori che saranno adeguatamente esplorati da “Atom Heart Mother” in poi, quelli dei Pink Floyd maestosi e spaziali. Tuttavia, sarà difficile rintracciare nel futuro dei Floyd delle vibrazioni altrettanto mistiche, mai più l’organo di Wright sembrerà altrettanto consono ad accompagnare un coro rituale all’interno di una cattedrale illuminata a giorno. Qualcuno ha detto che questo brano potrebbe essere considerato un diorama della carriera dei Pink Floyd, iniziata nel caos della
psichedelia e chiusa più di un decennio dopo con l’ordine progressive di The Wall (dopo il quale i Pink Floyd propriamente detti cessano di esistere, al di là di ogni considerazione sulla qualità di ciò che è stato prodotto successivamente con questo
nome).

Il disco ritorna sulle coordinate più “tradizionali”, fatte di psichedelia 60’s e songwriting bizzarro, con “See Saw” , ballatona morbida appena sporcata dai
wahwah delle chitarre, in questo caso di Gilmour.

In questo caso, avete letto bene: i chitarristi accreditati sul disco sono due, un unicum per i Floyd. “A saucerful of secrets” è l’unico disco in cui entrambi i leggendari chitarristi della band suonano insieme. A quel punto Barrett sarà già ben oltre il punto di non ritorno, per quanto riguarda la sua salute mentale, e il
subentrante Gilmour si adopera come può per fornire un’alternativa valida.

Fortunatamente, già dai live seguenti (immortalati per esempio in Ummagumma) il caro David si prenderà le libertà che si merita, costruendo in pochi anni lo stile che tutti noi conosciamo. I Pink Floyd perderanno la loro imprevedibilità, ma guadagneranno un sound immediatamente riconoscibile e, più importante, non
vivranno all’ombra di successi iniziali che non sarebbero mai riusciti ad imitare.

Tutti questi discorsi sul futuro, però, all’epoca potevano aspettare: la chiusa dell’album è infatti affidata a “Jugband Blues”, l’ultimo brano di Barrett con la band
alla cui immortalità lui ha contribuito in maniera imprescindibile. Un brano talmente barrettiano, nei suoi tempi altalenanti, nel testo sbilenco, nel finale caotico e nella coda malinconica, che ogni commento è superfluo.

Verrebbe la tentazione di chiedersi cosa sarebbe stato del suo talento se le cose fossero andate diversamente, ma è una domanda che non ha risposta: immaginarsi Barrett al di fuori del contesto dei tardi anni ’60 inglesi è un esercizio futile, perchè avrebbe potuto essere qualsiasi cosa: da un innovatore con pochi paragoni ad un fallito, arenato nel caos delle proprie idee. La “normalizzazione” dei Floyd spianerà la strada all’avvento del progressive, coi King Crimson già pronti a sovvertire di nuovo,
ancor più profondamente, le regole del rock britannico. Tutto comincia da qui, e non solo per il quartetto che poi firmerà “Time” e “Shine on you crazy diamond”.

Se del rock (e delle sue star) vi piace il “lore”, la leggenda nascosta e il mito perduto, qui potreste trovare pane per i vostri denti; lo stesso vale se vi piacciono il rock psichedelico e la musica strana in generale. Se invece no, passate oltre (ma sentitevi addosso il marchio dell’infamia, per almeno un pomeriggio).

- Spartaco Ughi


Nessun commento:

Posta un commento

ARTISTI IN ORDINE ALFABETICO:   #  --  A  --  B  --  C  --  D  --  E  --  F  --  G  --  H  --  I  --  J  --  K  --  L  --  M  --  N  --  ...