venerdì 29 giugno 2018

Florence and the Machine: "High as Hope" (2018)



(disco completo disponibile qui: https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_mmhzM9CYS6OV_cjRjgEtjgBE-DJdx0-iQ)

Che cosa è meglio per un'artista: riprodurre un disco fedele alle proprie sonorità, ai propri fan, alla propria produzione precedente; oppure fare un ampio angolo, non diciamo necessariamente 180 gradi, e provare qualcosa di nuovo e tentare nuovi approcci creativi?

Tendenzialmente, se questo diverso è realmente nuovo e non si limita a essere un inseguire maggiori fortune commerciali, saremmo per questo secondo approccio; ma Florence Welch evidentemente non è d'accordo.

È vero: il disco suona più intimo dei precedenti, fin dal pezzo che lo apre, "June". Florence ci parla dei suoi problemi alimentari, della sua delusione con il mondo della musica dopo avere ottenuto il successo; si ritira verso il proprio personale, e lo fa anche a detrimento dei suoi collaboratori: la band è sempre più superflua, diversi musicisti come Isabella Summers e Cyrus Bayandor nemmeno compaiono sul disco, al chitarrista Robert Ackroyd è lasciato un ruolo marginale, mentre dominano la presenza del produttore Emile Haynie e vari musicisti noti per il loro ruolo di produttori nell'indie, come l'americano Jonathan Wilson.

Ne deriva quindi un disco che da un lato è il più personale dal punto di vista della cantante e dall'altro il più impersonale da un punto di vista delle sonorità. Florence Welch ripercorre così con "Hunger", "Patricia" o "Big God" stilemi già visti del suo pop epico basato sulla sua voce potente e sulla sua personalità appassionata ed enfatica.

Quindi, un disco che è molto poco della Machine e troppo di Florence, e troppo già sentito, anche se non mancano momenti sinceramente toccanti che mostrano una possibile alternativa artistica costruita su una certa disarmante, dolente fragilità, che per una volta almeno non sente il bisogno di urlare i propri sentimenti (la strepitosa "South London Forever", momento tra i più alti di una carriera). Ma momenti che, come nel caso della iperprodotta "Sky full of song" o di "The End of Love", avrebbero bisogno del trattamento intimo di compagni di viaggio e non delle leccatine di mille produttori.

Sicuramente a chi ha amato i primi tre dischi non dispiacerà nemmeno questo quarto lavoro; chi invece aveva qualche riserva sul valore assoluto del gruppo continuerà a mantenerle anche ora. Quanto a noi, vediamo ancora potenziale inespresso, e pensiamo che il buono di Florence non sia tutto dietro le spalle, a patto che recuperi una Machine che ci pare le sia indispensabile per proseguire nel viaggio.

- Prog Fox

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