"Aretha
Now" rappresenta l'ultimo grande album della fase 'classica' della
carriera della Franklin, durata dal 1967 al 1970. Aretha aveva lasciato
la Columbia Records per la Atlantic (patria di tantissimi artisti blues e
r&b), iniziando a registrare il suo primo album indipendente, "I
never loved a man the way I love you", il 10 gennaio
del 1967. Quel disco, probabilmente il migliore e il più importante
della sua carriera, l'aveva lanciata come una delle artiste soul più
importanti d'America certamente grazie alla potenza di un singolo quale
"Respect", cover di Otis Redding; ma l'album era entrato nella storia
anche perché, oltre a qualche cover selezionata, era stato costruito in
gran parte su pezzi inediti, scritti da Aretha con il marito Ted White,
dal suo parterre de roi di musicisti, dall'amico Ronnie Shannon e dalla
sorella Carolyn.
A causa delle politiche commerciali di cui soffrivano gli artisti pop, bianchi o neri che fossero, Aretha fu spinta a incidere un disco dopo l'altro per soddisfare i famelici appetiti delle case discografiche, a tutto detrimento della qualità: a giugno incide l'assai inferiore "Aretha Arrives", in cui sono solo due i brani originali; a gennaio del '68 esce "Lady Soul", altro capolavoro e album classico della grande cantante, in cui di nuovo i brani inediti sono la maggioranza; e "Aretha Now" è il quarto album della Franklin per la Atlantic: non grande quanto "I never loved..." e "Aretha Now", ma comunque un buonissimo disco di livello decisamente superiore ad "Aretha Arrives" e anche ai dischi successivi dell'artista, gli assai inferiori "Soul '69" e "This girl's in love with you" del 1969, dopo i quali il picco commerciale della carriera di Aretha sarebbe definitivamente tramontato e sarebbe iniziata la terza fase della carriera della cantante afroamericana (con "Spirit in the Dark", completato nel marzo del 1970).
Ma veniamo a noi: già vi abbiamo detto la cosa fondamentale, ovvero che questo è uno dei dischi classici di Aretha, secondo noi al terzo posto in quella graduatoria. La seconda cosa fondamentale è che su questo disco c'è "Think", che è la più grande composizione che la Franklin abbia mai scritto, e non è certo poco. La versione di questo album è lievemente diversa da quella - definitiva - che compare in "The Blues Brothers" (1980), un poco più lenta e senza il frenetico solo di sax di 'Blue' Lou Marini; ma quando scrivi una delle canzoni fondamentali degli anni sessanta, in chiave nera e femminista, peraltro, c'è poco da dire.
Se però ci fosse solo "Think", vi consiglieremmo di accattarvi il singolo e basta; invece vale proprio la pena di ascoltare tutto l'LP, con le cover più sul lato A (alcune delle quali sensazionali come "I say a little prayer" di Dionne Warwick/Bacharach/David e "See Saw" di Don Covay e Steve Cropper) e gli inediti più sul lato B, dove spicca la conclusiva "I can't see myself leaving you" scritta per lei dall'amico di famiglia Ronnie Shannon.
Della band stellare non c'è nemmeno da parlarne: al banco di produzione c'è sempre Jerry Wexler, l'uomo che scoprì le potenzialità soul di Aretha e la portò alla Atlantic, e quindi molti dei musicisti già avevano partecipato ai dischi precedenti - dal tastierista Spooner Oldham al chitarrista Jimmy Johnson, dal bassista Tommy Cogbill al batterista Roger Hawkins, dalle coriste Cissy Houston (madre di Whitney) e Carolyn Franklin (sorella di Aretha) ai fiati Andrew Love e Wayne Jackson.
- Prog Fox
A causa delle politiche commerciali di cui soffrivano gli artisti pop, bianchi o neri che fossero, Aretha fu spinta a incidere un disco dopo l'altro per soddisfare i famelici appetiti delle case discografiche, a tutto detrimento della qualità: a giugno incide l'assai inferiore "Aretha Arrives", in cui sono solo due i brani originali; a gennaio del '68 esce "Lady Soul", altro capolavoro e album classico della grande cantante, in cui di nuovo i brani inediti sono la maggioranza; e "Aretha Now" è il quarto album della Franklin per la Atlantic: non grande quanto "I never loved..." e "Aretha Now", ma comunque un buonissimo disco di livello decisamente superiore ad "Aretha Arrives" e anche ai dischi successivi dell'artista, gli assai inferiori "Soul '69" e "This girl's in love with you" del 1969, dopo i quali il picco commerciale della carriera di Aretha sarebbe definitivamente tramontato e sarebbe iniziata la terza fase della carriera della cantante afroamericana (con "Spirit in the Dark", completato nel marzo del 1970).
Ma veniamo a noi: già vi abbiamo detto la cosa fondamentale, ovvero che questo è uno dei dischi classici di Aretha, secondo noi al terzo posto in quella graduatoria. La seconda cosa fondamentale è che su questo disco c'è "Think", che è la più grande composizione che la Franklin abbia mai scritto, e non è certo poco. La versione di questo album è lievemente diversa da quella - definitiva - che compare in "The Blues Brothers" (1980), un poco più lenta e senza il frenetico solo di sax di 'Blue' Lou Marini; ma quando scrivi una delle canzoni fondamentali degli anni sessanta, in chiave nera e femminista, peraltro, c'è poco da dire.
Se però ci fosse solo "Think", vi consiglieremmo di accattarvi il singolo e basta; invece vale proprio la pena di ascoltare tutto l'LP, con le cover più sul lato A (alcune delle quali sensazionali come "I say a little prayer" di Dionne Warwick/Bacharach/David e "See Saw" di Don Covay e Steve Cropper) e gli inediti più sul lato B, dove spicca la conclusiva "I can't see myself leaving you" scritta per lei dall'amico di famiglia Ronnie Shannon.
Della band stellare non c'è nemmeno da parlarne: al banco di produzione c'è sempre Jerry Wexler, l'uomo che scoprì le potenzialità soul di Aretha e la portò alla Atlantic, e quindi molti dei musicisti già avevano partecipato ai dischi precedenti - dal tastierista Spooner Oldham al chitarrista Jimmy Johnson, dal bassista Tommy Cogbill al batterista Roger Hawkins, dalle coriste Cissy Houston (madre di Whitney) e Carolyn Franklin (sorella di Aretha) ai fiati Andrew Love e Wayne Jackson.
- Prog Fox
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