sabato 5 maggio 2018

Textures: "Silhouettes" (2008)

Il 5 maggio di dieci anni fa usciva "Silhouettes", terzo lavoro degli olandesi Textures, loro capolavoro e capolavoro anche del genere metalcore, punto di contatto tra le opere dei Meshuggah e dei Pantere e le opere del nascituro djent; forse superiore a tutto ciò che venne dopo di questo sottogenere stesso.



Senza andare troppo a ritroso nel tempo, possiamo dire che il djent è stato l’unico nuovo genere (o corrente,se vogliamo) che abbia preso piede nel campo metal negli ultimi anni, esplodendo nel 2010 con l’album di debutto dei Periphery e prendendo presto piede da lì a breve.

Genere controverso, sicuramente non visto di buon occhio da tutti, anzi. Quella fusione di chitarroni distorti abbinati a vocals pop alla Jared Leto non va proprio giù alle frange più conservatrici di adepti del metal. Poi, a dirla tutta, al di là della preparazione tecnica dei singoli, molti gruppi djent hanno il vizio di comporre pezzi in modo troppo schematico e privo di originalità: tanta professionalità e zero anima. In effetti, nonostante una serie di buonissimi lavori, nessuna djent band ha finora composto chissà quale capolavoro epocale degno di venir ricordato negli annali.

Dieci anni fa, invece, precisamente il 5 maggio del 2008, ancora prima che esplodesse questo movimento, i Textures davano alla luce l’album perfetto, "Silhouettes", un lavoro che racchiude tutte le migliori caratteristiche che il djent dovrebbe possedere. Prendiamo i Meshuggah e le loro devastanti dissonanze, mischiamoli al travolgente groove post thrash dei Pantera, shakeriamo il tutto e plasmiamolo con il gusto policromatico spazio-onirico di Devin Townsend: abbiamo ottenuto la base della ricetta compositiva dei Textures.

In un qual modo sono stati precursori del djent, senza ricorrere a clean vocals ruffiane e senza standardizzare le singole canzoni su modelli prestabiliti. Originario di Tilburg, Olanda, il gruppo vede i natali nei primi anni 2000; gli artefici della nascita sono la formidabile coppia di chitarristi Bart Hannephof e Jochem Jacobs (soprattutto il primo), l'estroso batterista Stef Broks e ultimo ma non meno importante Richard Rietdijk, addetto alle tastiere e sintetizzatori.

Il loro esordio risale al 2004 con l’album "Polars", lavoro interessante ma ancora troppo debitore del sound dei Meshuggah. Due anni dopo è il turno dell’eccellente "Drawing Circles", seconda opera in cui risalta l’enorme evoluzione del gruppo il quale mostra finalmente una propria personalità stilistica. Per l’occasione il gruppo recluta il bassista Dennis Aarts e sostituisce il primo cantante Pieter Verpaalen con il notevolmente più dotato Eric Kalsbeek, un’autentica forza della natura.

Altri due anni più tardi, con "Silhouettes" il songwriting viene affinato ulteriormente e i Textures raggiungono la piena maturità artistica consolidando il loro status di una delle nuove realtà metal più meritevole di lodi.

Abbiamo parlato di Meshuggah, Pantera e Devin Townsend come fonti di ispirazione dominanti nel gruppo olandese, ebbene, con i pochi secondi iniziali dell’opener "Old Days Born Anew" si può immediatamente appurare come l’influenza dei suddetti gruppi sia profondamente radicata: synth su riff stoppati tessuti gli uni sugli altri, sincopi e poliritmie, doppiette di cassa, un travolgente riff che sembra strappato da "Vulgar Display of Power" o "Far Beyond Driven", una repentina accelerata guidata da una breve raffica di blast beat operano da preambolo all’entrata in scena di un animalesco growl a cui segue un tripudio di variazioni di tempi, scale maggiori e metamorfosi ritmiche e vocali. Questo è il modus operandi compositivo dei Textures, ostico per la mancanza di linearità delle proprie composizioni e continue varazioni di mood all’interno della stessa canzone, ma estremamente variegato nella miriade di soluzioni mai ripetitive o banali, il songwriting risulta snello nella sua compattezza e la perizia tecnica non viene mai sovrastata da virtuosismi individuali, la precisa scelta stilistica di epurare quasi completamente (eccetto in qualche breve e raro caso) gli assoli è indicativa di quanto il gruppo si guardi bene dal rischiare di appesantire i brani (mai troppo lunghi) con passaggi evitabili. Non una singola nota fuori posto.

"Awake", terzo pezzo del lotto, dimostra quanto sia ampio lo spettro compositivo che il gruppo possiede, a questo giro le note (sempre e rigorosamente distorte, sia chiaro) si fanno più limpide e sognanti, Kalsbeek, versatile ed eclettico singer, si destreggia in evocative linee vocali (anche in clean la sua resa è davvero ottima) accompagnato egregiamente dai visionari synth di Rietdijk (fondamentale il suo contributo), ma a un tratto questo sogno sonoro viene interrotto bruscamente da un violento break che ci ricorda quanto i Textures sappiano pestare di brutto, una sorta di wormhole sonico in grado di trasportare il pezzo da un mood a un altro e mutarne di colpo l’andamento.

Tuoni, fulmini, saette e salti temporali avvolgono "Storm Warning", che si contende con "Awake" il titolo del miglior pezzo composto dai Textures, un capolavoro assoluto magistralmente assemblato in tutte le sue innumerevoli partiture.

Chi predilige l’anima più primordiale e meshugghiana del gruppo, le soluzioni articolate dalle tinte progressive pesanti come macigni, troverà gran soddisfazione nella doppietta formata da "The Sun’s Architects" e "Laments of a Icarus", entrambe comunque adeguatamente colorate dagli elementi che contraddistinguono le loro peculiarità.

"The Messanger" è una sorta di sofferto lentone in cui a essere protagonisti sono i sintetizzatori e l’interpretazione del singer, qua impegnato in una performance emotivamente ineditamente intensa, esperimento già tentato nel precedente "Drawing Circles" con la breve "Illumination" che in quel caso fungeva perlopiù come intermezzo. Non che sia esattamente la loro specialità, ma ciò che ne viene fuori si lascia apprezzare.

"State of Disobedience" si regge su ritmiche e riff compressi di matrice post thrash misto noise core, naturalmente rielaborato e retto su tempi dispari. "One Eye for a Thousand", posta nella parte centrale del disco, rappresenta un momento di calo di tensione, dove il gruppo rallenta andando fuori giri e gigioneggiando su un mid tempo non particolarmente ispirato che alla fine si rivela il punto debole di "Silhouettes".

A chiudere le danze provvede l’imponente "To Erase a Lifetime", pezzo dall’architettura sonora piuttosto complessa e dinamica, chiusa da un terremotante finale in crescendo con il batterista Broks impegnato a smazzulare fendenti a destra e manca. Una degna chiusura per un album spettacolare.

Sfortunatamente, dopo "Silhouettes" il gruppo perderà elementi preziosi come Kalsteed, Rietdijk e, successivamente, Jacobs: i sostituti, per quanto bravi, non riusciranno a sostituirli adeguatamente. Lo confermeranno i due album rilasciati negli ultimi dieci anni di vita dei Textures, lavori pregevoli per carità, ma lontani dal livello di "Silhouettes" e "Drawing Circles". Attualmente il sestetto olandese ha annunciato il proprio congedo da ogni attività, salutando il proprio pubblico nell’ultimo tour. Ne approfittiamo anche noi per salutarli e rendere omaggio a quello che è il loro gioiellino.

- Supergiovane

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