Il 5 maggio di dieci anni fa usciva "Silhouettes", terzo lavoro degli olandesi Textures, loro capolavoro e capolavoro anche del genere metalcore, punto di contatto tra le opere dei Meshuggah e dei Pantere e le opere del nascituro djent; forse superiore a tutto ciò che venne dopo di questo sottogenere stesso.
Senza
andare troppo a ritroso nel tempo, possiamo dire che il djent è stato
l’unico nuovo genere (o corrente,se vogliamo) che abbia preso piede nel
campo metal negli ultimi anni, esplodendo nel 2010 con l’album di
debutto dei Periphery e prendendo presto piede da lì a breve.
Genere controverso, sicuramente non visto di buon occhio da tutti, anzi. Quella fusione di chitarroni distorti abbinati a vocals
pop alla Jared Leto non va proprio giù alle frange più conservatrici di
adepti del metal. Poi, a dirla tutta, al di là della preparazione
tecnica dei singoli, molti gruppi djent hanno il vizio di comporre pezzi
in modo troppo schematico e privo di originalità: tanta professionalità
e zero anima. In effetti, nonostante una serie di buonissimi lavori,
nessuna djent band ha finora composto chissà quale capolavoro epocale
degno di venir ricordato negli annali.
Dieci anni fa, invece,
precisamente il 5 maggio del 2008, ancora prima che esplodesse questo
movimento, i Textures davano alla luce l’album perfetto, "Silhouettes",
un lavoro che racchiude tutte le migliori caratteristiche che il djent
dovrebbe possedere. Prendiamo i Meshuggah e le loro devastanti
dissonanze, mischiamoli al travolgente groove post thrash dei Pantera,
shakeriamo il tutto e plasmiamolo con il gusto policromatico
spazio-onirico di Devin Townsend: abbiamo ottenuto la base della ricetta
compositiva dei Textures.
In un qual modo sono stati
precursori del djent, senza ricorrere a clean vocals ruffiane e senza
standardizzare le singole canzoni su modelli prestabiliti. Originario di
Tilburg, Olanda, il gruppo vede i natali nei primi anni 2000; gli
artefici della nascita sono la formidabile coppia di chitarristi Bart
Hannephof e Jochem Jacobs (soprattutto il primo), l'estroso batterista
Stef Broks e ultimo ma non meno importante Richard Rietdijk, addetto
alle tastiere e sintetizzatori.
Il loro esordio risale al 2004
con l’album "Polars", lavoro interessante ma ancora troppo debitore del
sound dei Meshuggah. Due anni dopo è il turno dell’eccellente "Drawing
Circles", seconda opera in cui risalta l’enorme evoluzione del gruppo il
quale mostra finalmente una propria personalità stilistica. Per
l’occasione il gruppo recluta il bassista Dennis Aarts e sostituisce il
primo cantante Pieter Verpaalen con il notevolmente più dotato Eric
Kalsbeek, un’autentica forza della natura.
Altri due anni più
tardi, con "Silhouettes" il songwriting viene affinato ulteriormente e i
Textures raggiungono la piena maturità artistica consolidando il loro
status di una delle nuove realtà metal più meritevole di lodi.
Abbiamo parlato di Meshuggah, Pantera e Devin Townsend come fonti di
ispirazione dominanti nel gruppo olandese, ebbene, con i pochi secondi
iniziali dell’opener "Old Days Born Anew" si può immediatamente appurare
come l’influenza dei suddetti gruppi sia profondamente radicata: synth
su riff stoppati tessuti gli uni sugli altri, sincopi e poliritmie,
doppiette di cassa, un travolgente riff che sembra strappato da "Vulgar
Display of Power" o "Far Beyond Driven", una repentina accelerata
guidata da una breve raffica di blast beat operano da preambolo
all’entrata in scena di un animalesco growl a cui segue un tripudio di
variazioni di tempi, scale maggiori e metamorfosi ritmiche e vocali.
Questo è il modus operandi compositivo dei Textures, ostico per la
mancanza di linearità delle proprie composizioni e continue varazioni di
mood all’interno della stessa canzone, ma estremamente variegato nella
miriade di soluzioni mai ripetitive o banali, il songwriting risulta
snello nella sua compattezza e la perizia tecnica non viene mai
sovrastata da virtuosismi individuali, la precisa scelta stilistica di
epurare quasi completamente (eccetto in qualche breve e raro caso) gli
assoli è indicativa di quanto il gruppo si guardi bene dal rischiare di
appesantire i brani (mai troppo lunghi) con passaggi evitabili. Non una
singola nota fuori posto.
"Awake", terzo pezzo del lotto,
dimostra quanto sia ampio lo spettro compositivo che il gruppo possiede,
a questo giro le note (sempre e rigorosamente distorte, sia chiaro) si
fanno più limpide e sognanti, Kalsbeek, versatile ed eclettico singer,
si destreggia in evocative linee vocali (anche in clean la sua resa è
davvero ottima) accompagnato egregiamente dai visionari synth di
Rietdijk (fondamentale il suo contributo), ma a un tratto questo sogno
sonoro viene interrotto bruscamente da un violento break che ci ricorda
quanto i Textures sappiano pestare di brutto, una sorta di wormhole
sonico in grado di trasportare il pezzo da un mood a un altro e mutarne
di colpo l’andamento.
Tuoni, fulmini, saette e salti temporali
avvolgono "Storm Warning", che si contende con "Awake" il titolo del
miglior pezzo composto dai Textures, un capolavoro assoluto
magistralmente assemblato in tutte le sue innumerevoli partiture.
Chi predilige l’anima più primordiale e meshugghiana del gruppo, le
soluzioni articolate dalle tinte progressive pesanti come macigni,
troverà gran soddisfazione nella doppietta formata da "The Sun’s
Architects" e "Laments of a Icarus", entrambe comunque adeguatamente
colorate dagli elementi che contraddistinguono le loro peculiarità.
"The Messanger" è una sorta di sofferto lentone in cui a essere
protagonisti sono i sintetizzatori e l’interpretazione del singer, qua
impegnato in una performance emotivamente ineditamente intensa,
esperimento già tentato nel precedente "Drawing Circles" con la breve
"Illumination" che in quel caso fungeva perlopiù come intermezzo. Non
che sia esattamente la loro specialità, ma ciò che ne viene fuori si
lascia apprezzare.
"State of Disobedience" si regge su
ritmiche e riff compressi di matrice post thrash misto noise core,
naturalmente rielaborato e retto su tempi dispari. "One Eye for a
Thousand", posta nella parte centrale del disco, rappresenta un momento
di calo di tensione, dove il gruppo rallenta andando fuori giri e
gigioneggiando su un mid tempo non particolarmente ispirato che alla
fine si rivela il punto debole di "Silhouettes".
A chiudere le
danze provvede l’imponente "To Erase a Lifetime", pezzo
dall’architettura sonora piuttosto complessa e dinamica, chiusa da un
terremotante finale in crescendo con il batterista Broks impegnato a
smazzulare fendenti a destra e manca. Una degna chiusura per un album
spettacolare.
Sfortunatamente, dopo "Silhouettes" il gruppo
perderà elementi preziosi come Kalsteed, Rietdijk e, successivamente,
Jacobs: i sostituti, per quanto bravi, non riusciranno a sostituirli
adeguatamente. Lo confermeranno i due album rilasciati negli ultimi
dieci anni di vita dei Textures, lavori pregevoli per carità, ma lontani
dal livello di "Silhouettes" e "Drawing Circles". Attualmente il
sestetto olandese ha annunciato il proprio congedo da ogni attività,
salutando il proprio pubblico nell’ultimo tour. Ne approfittiamo anche
noi per salutarli e rendere omaggio a quello che è il loro gioiellino.
- Supergiovane
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