Quarant'anni fa oggi usciva "Black and White", terzo LP degli The Stranglers (Official).
Un ottimo disco in cui si aumentava la dose di sperimentazione senza
perdere in qualità, nonostante qualche mugugno della critica.
Quando
una band di culto decide di cambiare direzione, viene sempre studiata
con attenzione: si cerca di capire se si siano venduti, se si siano
commercializzati, se stiano cercando di seguire le mode del momento.
Però ai critici seri questo non dovrebbe interessare: dovremmo solo
capire se i dischi del nuovo corso siano ancora validi o no, senza considerare negativamente il successo di pubblico o il cambiamento.
"Black and White", terzo LP degli Stranglers, è uno di questi casi.
Arriva nel 1978, la maggioranza dei gruppi punk ha già dato tutto e
tutti gli altri si stanno buttando sulla new wave, sulle drum machine
e/o sui ritmi da discoteca. Gli Stranglers però se ne fottono: se ne
fottevano prima dell'esplosione del punk fra 1976 e 1977 e a maggior
ragione se ne fottono ora. È vero, "Black and White" è meno aggressivo
dei precedenti "Rattus Norvegicus" e "No more heroes", c'è più
sperimentazione che violenza e c'è più decadenza che rabbia, ma il
valore della band rimane immutato. Inoltre, gli Stranglers ci regalano
quasi un album e mezzo, visto che oltre all'LP vero e proprio vi è dato
in allegato un singolo che aggiunge un altro quarto d'ora di durata al
disco, minuto più minuto meno. A riprova di una immutata floridità della
vena artistica.
L'album è diviso in due lati che non si
chiamano A e B ma Black Side e White Side. L'apertura della White Side è
da paura: "Tank" è violenta, sporca e aggressiva come siamo abituati ad
aspettarci dagli Stranglers, con le tastiere di Greenfield in
primissimo piano e un giro di basso di Burnel che fa correre brividi
sulla schiena. Burnel ci introduce anche alla fascinosa "Nice'n'sleazy",
altro pezzo sporchissimo connotato per una strofa eccezionale.
"Outside Tokyo" è un momento più meditativo e forse uno dei principali
colpevoli dell'accusa di ammorbidimento; anche i più virulenti
detrattori degli Stranglers non possono negare che "Hey", la canzone che
viene dopo, sia una bomba poderosa che sa mescolare punk tradizionale e
sperimentazioni degne di Pop Group e Pere Ubu, grazie al tappeto di
organo di Greenfield e al sax dell'amica Lora Logic; il lato si conclude
con altre due canzoni importanti, la bizzarra "Sweden" e la lunga,
epica "Toiler on the Sea".
Il Black Side è purtroppo di livello
un po' inferiore, nonostante "Curfew", un'altra canzone meravigliosa
che alterna un disturbante ritmo in 7/8, un ritornello favoloso e un
breve interludio di organo; e "Do you wanna", l'unica canzone cantata
dal tastierista Greenfield, che qui interpreta psicotico e sopra le
righe, imprimendo il suo marchio su uno dei pezzi più cazzuti ancora una
volta con il suo organo; e nonostante il pregevole, inquietante finale
di "Enough Time" (in cui già si prefigurano certe atmosfere da Bauhaus,
se ci è concesso dirlo, specie in anticipazione della vocalità vampirica
di Peter Murphy).
Nel singolo incluso all'edizione originale
dell'album ci sono tre canzoni: una cover stupefacente di "Walk on by"
di Burt Bacharach e Hal David, che il gruppo (Greenfield in primis, per
il quale non sappiamo più trovare aggettivi) trasforma in un capolavoro
alla Doors stile "Light my fire"; e gli inediti "Mean to me" (un
divertimento rock and roll) e "Tits" (un jazz blues volgare e ruffiano).
Non si può quindi davvero imputare molto agli Stranglers, se non che
avrebbero potuto sostituire un paio dei pezzi più deboli con quelli del
singolo extra. Ma quando le critiche si limitano a questo, è chiaro che
stiamo parlando di un altro grande album da aggiungere alla propria
discografia. Il livello del gruppo non calerà nemmeno con il successivo,
cupissimo "The Raven". Ma questa è un'altra storia.
- Red
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