Anno domini duemilaotto, gli svedesi Opeth danno alla luce "Watershed", ottavo lavoro (escluso dalla conta l’esperimento "Damnation") da studio, letteralmente “spartiacque”, l’album segna il fatto la fine della prima vita del gruppo, lo spartiacque fra lo stile originario del gruppo e il ciclo (fake) vintage prog tanto discusso e che ha letteralmente spaccato il loro fandom, e non soltanto.
"Watershed" rappresenta l’esaurimento della linfa vitale degli Opeth, segna la fine di un ciclo cominciato quattordici anni prima con l’interessantissimo esordio "Orchid", proseguito con il suo naturale seguito "Morningrise" (e comporre una suite del calibro di "Black Rose Immortal" è già segno di smisurata classe), rinnovato con "My Arms, Your Hearse" dove viene affinato il songwriting, arrivando alla definitiva maturazione (sotto ogni punto di vista) ottenuta con "Still Life", fino a giungere alla consacrazione mondiale con il masterpiece "Blackwater Park", il quale, grazie anche alla collaborazione con Steven Wilson, ha permesso al gruppo di ottenere il meritato riscontro mondiale a livello di pubblico e critica.
Se vi sembra che stiamo esagerando con la magnificazione degli Opeth, credeteci, non è così: a loro va riconosciuto l’indiscusso merito di aver abbattuto le barriere che tenevano separate la brutalità del metal estremo e la poesia e la raffinatezza del prog, di aver prodotto una fusione di death contaminato di gothic e prog di scuola settantiana, di aver prodotto un ibrido sonoro a metà fra Jethro Tull e Katatonia, fra Pink Floyd e Paradise Lost, fra Yes e Therion.
Evitare di definirli come uno dei più importanti, creativi e prolifici gruppi degli anni zero equivarrebbe a far loro (e alla scena musicale) un torto (ora però cari Opeth, anche voi, non montatevi la testa dopo tutte queste moine…). Insomma, una lunga serie di otto lavori riconosciuti all’unanimità come lavori la cui qualità oscilla fra il buono e il capolavoro che sono riusciti a mettere d’accordo tutti, o quasi.
"Watershed" segna, oltre a una lieve ma decisa virata stilistica, anche un restyling a livello di formazione: alla guida del quintetto svedese troviamo sempre il leader Mikael Akerfeldt, Martin Mendez al basso e Per Wiberg alle tastiere e pianoforte, ma dobbiamo registrare due gravi perdite, il co-fondatore Peter Lindgren (sostituito con Fredrik Akesson alla seconda chitarra) e, dopo più di dieci anni di militanza nel gruppo, dobbiamo salutare anche un batterista a sei marce come Martin Lopez, rimpiazzato più che dignitosamente da Martin Axenrot, già loro turnista nel tour precedente.
Come accennato, il disco si muove su coordinate differenti rispetto al passato. Intendiamoci, suona al 100% come un lavoro Made by Opeth, ma stavolta a prevalere non sono le atmosfere plumbee e grevi a cui eravamo abituati a immergerci, a questo giro scorgiamo più luci (pur sempre su tonalità grigio seppia) e ci abbandoniamo a momenti più soavi e mood meno lugubri.
La pesantezza del death metal è meno accentuata, così come l’indole depressiva gothic e la matrice sinistra doomy che avvolgeva il sound, Akerfeldt ricorre nettamente meno al growl, pur sempre possente e gutturale, che resta uno dei più caratteristici e cavernosi in dotazione a un cantante di death metal, mentre il lato acustico, già ben valorizzato da sempre, tende a impossessarsi di un ruolo più decisivo nell’alchimia delle composizioni.
"Coil", pezzo di apertura del disco, mette in evidenza il fatto che qualcosa sta cambiando: simil-ballad relativamente breve interamente acustica e cantata in clean, con l’inedita partecipazione addizionale di una voce femminile appartenente alla sconosciuta Nathalie Lorichs, fidanzata di Axenrot e musa part time di Akerfeldt il quale non esitò a domandarle i suoi servigi dopo averla vista all’opera ad un karaoke in un party. Pezzo che trasuda anni '70 a ogni poro, rimandando alla memoria le composizioni dei Jethro Tull ma anche dei Led Zeppelin nel loro celebre terzo album. Senza dubbio un pezzo affascinante e diretto, anche se non proprio il modo di aprire che ci si sarebbe aspettato dagli Opeth, ma niente paura, ci pensa la successiva "Heir Apparent" con le chitarre elettriche e il lacerante grugnito iniziale di Akerfeldt a riconsegnarci quel gruppo che ricordavamo esattamente come quando lo avevamo lasciato l’ultima volta. Qua è racchiusa tutta l’essenza opethiana su cui il gruppo ha costruito la propria carriera, riffoni cadenzati pesanti come macigni, l’avvicendamento fra le due tonalità vocali diametralmente opposte l’una con l’altra, intermezzi acustici, repentine accelerate con doppia cassa a ciocco, digressioni psichedeliche, la fusione e alternanza di sonorità progressive anni ’70 con il death e gothic metal forgiato negli anni ’90.
Dalle molteplici sfaccettature, seguendo le orme dei connazionali Pain of Salvation, è contraddistinta anche la seguente "The Lotus Eater" (titolo già adottato dai Nevermore in "Dreaming Neon Black", letteralmente il mangiatore dei semi del fiore di loto, tratto dall’odissea, metaforicamente è volto a indicare individui privi di motivi di apprensione che vivono un’esistenza rilassata, felice e spensierata, metafora usata in contrasto con il soggetto protagonista del testo, in guerra aperta con il proprio padre), introdotta da un Akerfeldt nelle vesti di menestrello che ne canticchia il motivo e aperta da un paradossale connubio linee vocali pacate e pulite e veloci blast beat e riff serrati. In questo pezzo, è il controsenso il denominatore comune, alle consuete arcigne ritmiche, vengono abbinati synth psichedelici alla Richard Wright, fino ad arrivare verso i tre/quarti del pezzo a uno stacco di matrice funky. Si respira una forte aria di sperimentazione qua.
Le tetre e paludose atmosfere di "Blackwater Park" si respirano in "Hessian Peel", pezzo dalle due facce: mesta e contenuta la prima parte, guidata da una performance canora compassata di Akerfeldt, il quale poi si scatena col suo vocione assieme al resto della band nella seconda metà. Piccola curiosità: nel pezzo vengono recitati alcuni versi al contrario, che posti nel giusto ordine vanno a formare la frase “Out on the courtyard. Come back tonight. Hi, sweet Satan. I see you. They'll lock all your reason why “, trattasi di una pseudo citazione a Stairway to Heaven e uno sfottò verso chi spulciava i testi delle canzoni dei Black Sabbath e Led Zeppelin alla ricerca di messaggi satanisti occulti.
Sappiate che non ci sono ulteriori tracce nel disco del growl di Akerfeldt. Il che non è necessariamente un male, le rimanenti "Burden", "Porcelain Heart" e "Hex Omega" restano su livelli qualitativi decisamente buoni.
La prima, in particolare, si segnala come il pezzo dall’impatto più immediato, soprattutto può essere apprezzata da parte di chi predilige quei sofferti lentoni psichedelici pinkfloydiani, con tanto di lunghi e struggenti assoli, e termina in calando con le note quasi blues di una chitarra acustica che finisce lentamente per disaccordarsi.
Poliedrica e multiforme possiamo definire "Porcelain Heart", scelta come singolo di lancio di Watershed, altro pezzo capace di trasmettere emozioni sensitive di gran impatto grazie ai suoi mood misteriosi, arcani e flemmatici. Simili caratteristiche le possiede anche "Hex Omega", a cui spetta il compito di chiudere Watershed, composizione in buona parte strumentale in cui la voce di Akerfeldt fa capolino solamente in tre serie di versi, come collante narrativo.
Ottimo come sempre l’artwork partorito del semper fidelis Travis Smith, e la produzione curata dallo stesso Akerfeldt con la collaborazione del solito Jens Brogen, andando a rimediare agli errori commessi nel precedente "Ghost Reveries", il quale soffriva di suoni tendenzialmente “digitalizzati”, con un particolare eccesso di trigger, che non si sposavano granchè con lo stile del gruppo, offrendo comunque con "Watershed" un mixing moderno e pulitissimo.
Nonostante l’evidente sterzata stilistica, Watershed venne ben accolto da (buona) parte del pubblico (non si può sempre accontentare proprio tutti, no?) che lo premiò con quasi 50'000 copie vendute nella prima settimana (per un disco metal, e per giunta in piena era digitale rappresenta un traguardo notevole), oltre che da parte della critica di settore più mainstream, Metal Hammer lo incoronò secondo miglior lavoro del 2008 (dietro a "Death Magnetic" dei Metallica… ah ah ah, ridiamo).
"Watershed", lo spartiacque.
- Supergiovane
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