Vent'anni fa oggi usciva "The Black Light", capolavoro assoluto firmato Calexico, di cui costituisce l'esordio su long playing dopo il cambio di nome dal vecchio Spoke. Misto di americana e suoni del deserto di confine, "The Black Light"
costituisce una folgorante opera di (quasi) debutto, irripetibile pur nella
lunga e riuscita carriera della band.
Il
confine, meglio ancora la frontiera, fa parte dell’immaginario
americano sin dalle radici della cultura a stelle e strisce. L’orizzonte
lontano è mistero, luogo di conquista e opportunità al tempo stesso.
Quando Joey Burns e John Convertino decidono di chiamarsi Calexico,
prendendo spunto dal nome di una città al confine, appunto,
tra California e Messico, la suggestione di quel nome, al contempo
crasi e ideale luogo d’incontro tra mondi diversi, punta proprio al mito
dell’avventuriero da western.
In un momento in cui il rock
tutto cercava nella sperimentazione futuribile il proprio ennesimo
rinnovamento, il duo dell’Arizona cerca nella root music americana gli
spunti per qualcosa di nuovo e inatteso. Le prove generali dell’esordio
“Spoke”, che già mescolava il country e il blues con il cantautorato
americano e le colonne sonore western (Morricone in primis) non
preparano il pubblico all’arrivo di questo “The black light”.
Qui, gli umori e le suggestioni dell’America più stereotipica si
sporcano nel deserto messicano, per poi assimilare influenze ethno-music
sudamericane e persino europee, basti pensare alla zigana “Old man
waltz” o alla mediterranea “Sprawl”. Alla testa di una band di livello,
comprendente anche anticonvenzionali come il guitarròn, i Calexico
varcano la soglia di un mondo intenso e cinematografico, fatto di
chiaroscuri intensi che solo raramente hanno bisogno
dell’accompagnamento delle parole, se è vero quasi due terzi dei brani
dell’album sono strumentali.
Il calderone misterioso di “The
black light” elargisce praticamente solo brani notevoli,
dalla’inquietante title track alle seduzioni sudamericane di “Fake fur”,
dall’easy listening secco di “Over your shoulder” allo spettacolo
danzante di “Minas de Cobre”.
“The black light” è rimasto un
unicum irripetibile nella carriera dei Calexico, e la cosa non è
sorprendente. Il western postdmoderno e citazionista di questo disco non
solo si basa su un’alchimia difficilissima tra componenti sulla carta
poco compatibili, ma soprattutto gioca su di un effetto sorpresa che non
può essere riprodotto semplicemente scrivendo nuove melodie, nemmeno se
queste fossero allo stesso livello di quelle che lo attraversano (che
già di per sè sarebbe impresa improba).
I Calexico
proseguiranno una carriera rispettabile, fatta di tanti buoni brani in 2
decenni, consapevoli forse che questo capolavoro è arrivato a loro, e
non il contrario. Un fatto in cui non c’è niente di vergognoso, e che
non è nemmeno un caso isolato (basti pensare a “Moon Safari” degli Air).
In ogni caso questo viaggio complesso, difficile e avvincente rimane
negli annali della musica occidentale, un piccolo pezzo di storia
costruito al crocevia di molte storie più grandi.
- Spartaco Ughi
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