Ricordiamo oggi il decennale dell'unico disco solista di Warrel Dane, cantante dei Nevermore tragicamente scomparso il 13 dicembre scorso. Pubblicato il 25 aprile del 2008, "Praises to the War Machine" è un buon album che conferma la statura di Dane come una delle più importanti figure del metal americano degli anni 90 e 00.
Lo scorso 13 dicembre verrà ricordato in ambito musicale come un ennesimo giorno di lutto, lo sfortunato protagonista stavolta è stato Warrel Dane, storico cantante dei Nevermore, uno dei gruppi metal in assoluto più prestigiosi degli anni 90 e 2K, apprezzati e stimati non solo dal popolo metallaro. Dane è stato colpito da un infarto fulminante nel sonno mentre si trovava a San Paolo in Brasile per le registrazioni di quello che sarebbe dovuto essere il suo secondo disco solista, assieme al producer Roy Z e alla sua nuova band interamente composta da musicisti carioca: inutili i soccorsi, inutile anche chiedersi se il diabete di cui soffriva e un passato da forti dipendenze da alcool siano stati i maggiori responsabili latenti.
Curiosamente, il 13 dicembre viene anche ricordato come data in cui un altro illustre musicista fu stroncato dalla leucemia: si tratta di Chuck Schuldiner, storico mastermind dei Death, morto nel 2001. Ancor più curioso che anche lui sia morto durante le registrazioni del proprio secondo nuovo progetto personale, i Control Denied, gruppo del quale Warrel Dane sarebbe dovuto essere cantante, se non fosse stato costretto a rinunciare per via dei numerosi impegni con i Nevermore, all’epoca all’apice del loro successo grazie agli album "Dreaming Neon Black" e "Dead Heart in a Dead World". Così, come per Schuldiner, anche il secondo progetto solista di Dane rimarrà per sempre incompiuto.
Nato a Seattle il 7 marzo del 1961, Warrel Dane, all’anagrafe Warrel G. Baker, mosse i primi passi in un gruppo chiamato Serpent’s Knight, all'attivo un solo album autoprodotto e di cui adesso è praticamente impossibile reperire il materiale. Il primo vero successo arrivò nel 1987 con i Sanctuary, gruppo scoperto e prodotto da Dave Mustaine dedito a un heavy power piuttosto originale, nel quale Dane si distinse immediatamente sia per il suo potente falsetto halfordiano ma soprattutto per il modo espressivo e teatrale di interpretare le canzoni. Con i Sanctuary incise inizialmente due album, "Refuge Denied" e soprattutto l’interessantissimo "Into the Mirror Black", prima dello split del gruppo, avvenuto per contrasti con la propria etichetta discografica la quale voleva che il gruppo originario di Seattle virasse su sonorità grunge per seguire l’onda del successo tracciata dai loro più celebri concittadini.
Dane, da sempre molto avverso a quel tipo di proposta musicale (in futuro capiterà spesso di sentirlo introdurre i propri show con le lapidarie parole “We are Nevermore, from Seattle. Grunge is Dead.”), piuttosto che seguire le direttive dei capoccia discografici preferì sciogliere il gruppo (che riformerà vent’ anni dopo, pubblicando un nuovo lavoro nel 2014 intitolato "The Year the Sun Died", e lo scorso anno "Inception", raccolta di vecchi demo rielaborati e riarrangiati) e ricominciare da capo con un progetto nuovo di zecca, portandosi dietro il fidato bassista, amico e compagno nei Sanctuary (oltre che collega di lavoro nel ristorante italiano di Seattle dove svolgono il ruolo di chef) Jim Sheppard, e il giovane e promettente chitarrista Jeff Loomis, entrato nella band sotto raccomandazione di Mustaine poco prima dello scioglimento. Ad essi si andò ad aggiungere l’ultimo pezzo del puzzle, il batterista Van Williams, ed ecco che nacque così il nucleo dei Nevermore.
Il loro esordio avvenne nel 1995 con il buonissimo album omonimo, seguito non molto tempo dopo dal mini lp "In Memory", sorta di sua prosecuzione. La band si distinse subito dalla massa per l’estrema originalità della propria proposta musicale, per l’elevato tasso tecnico (grazie prevalentemente a Loomis, senza nulla togliere all’ottimo lavoro di Williams) e per la profonda varietà compositiva. Da qui seguì una serie di capolavori assoluti, "The Politics of Ecstasy", forse l’apice assoluto del gruppo e del metal “evoluto” negli anni 90, il disperato "Dreaming Neon Black" (segnato dalle drammatiche tematiche di Dane in seguito al suicidio della propria fidanzata), il meraviglioso "Dead Heart in a Dead World", loro più grande successo commerciale, il discusso "Enemies of Reality", in realtà ennesimo lavoro sensazionale penalizzato enormemente da una produzione non all’altezza per via di un bassissimo budget concesso dalla loro etichetta, la Century Media, il successivo e acclamato "This Godless Endeavor", caratterizzato da un riuscito mix di sonorità old e new school, fino all’ultimo "The Obsidian Conspiracy", unico mezzo passo falso della loro carriera, dove nemmeno la formidabile title track salva un lavoro nettamente al di sotto dei loro standard, frutto di dissidi interni di lunga data che nel corso degli anni si erano sempre più accentuati a causa degli screzi di Dane (dal carattere notoriamente dispotico e scontroso) verso Loomis e Williams in particolar modo, fino a giungere a una situazione insanabile seguita dall’inevitabile rottura.
In mezzo agli ultimi due lavori targati Nevermore, Dane darà alla luce il proprio disco progetto solista. Ecco, dopo questa sintetica e doverosa bio, andiamo appunto a parlare di "Praises to the War Machine", primo e unico album del Dane solista. Beh, cominciamo subito a dire che definirlo semplicemente solista è alquanto riduttivo, per l’occasione Dane si avvale dei servigi di Peter Wichers, chitarrista dei Soilwork, qui nelle duplici vesti di produttore e musicista. A Wichers va a unirsi il batterista Dirk Verbeuren anch’esso membro dei Soilwork (attualmente in pianta stabile dietro le pelli nei Megadeth, c’è da dire che nel corso degli anni le strade di Dane e Mustaine si sono incrociate spesso, direttamente o indirettamente) e il chitarrista degli Himsa (prima, e God Forbid poi) Matthew Wicklund, il quale si spartisce con Wichers anche la registrazione delle parti di basso.
Fanno poi capolino nelle vesti di ospiti i nevermoriani Loomis e Chris Broderick, oltre al veterano James Murphy. Musicalmente, non aspettatevi di trovarvi di fronte a un lavoro che richiama i Nevermore o i Sanctuary, se non in minor parte. "Praises to the War Machine" è semplicemente un album di massiccio heavy metal, privo di sperimentazioni o sonorità astruse, e composto da canzoni da una forma rigorosamente lineare. Inevitabilmente i richiami ai gruppi in cui Dane ha militato sono presenti qua e là, ma sono dominanti soprattutto le influenze dell’heavy metal classico a stelle e strisce, il tutto condito da un retrogusto goth, non quello plumbeo o catacombale, piuttosto quello uggioso ma frizzante forgiato dalla formula vincente dal new wave of british heavy metal, un po’ in stile Sentenced per intenderci. Il tutto guidato dal portentoso Dane e dalla sua verve rabbiosa e malinconica.
I temi affrontati in "Praises to the War Machine" sono i medesimi che il singer ha sempre affrontato nei Nevermore, astio verso le religioni, sfiducia nella politica, istituzioni e governi, ripudio delle guerre, drammi umani e conflitti interiori di natura anche autobiografica. Sugli scudi segnaliamo il pezzo d’apertura, "When We Pray", ottimo compromesso fra riff rocciosi e break soffusi e riflessivi, con un gran bel solo di Wichers. Dane ribadisce come si possa aver fede dato quello che accade quotidianamente, “Il mondo è governato da stolti e ladri, con il fiuto per il potere e il gusto dell’avidità. Adesso chiedi a te stesso, non ti senti tradito, perché nulla è mai cambiato quando noi preghiamo?”.
"Messenger", che vede la partecipazione di Loomis nella parte dell’assolo, è il pezzo più metallico e più nevermoriano del disco, ma a risaltare è sempre Dane e la sua impeccabile abilità nel tracciare linee vocali che si abbinano in modo sublime alle ritmiche, partorendo strofe e refrain di eccezionale fattura, grazie anche alle sue innate doti interpretative. Discorso analogo lo si potrebbe fare per "Let You Down", pezzo dal ritornello davvero coinvolgente e accattivante.
Il cantante di Seattle si distingue in particolar modo nei tre pezzi più emotivamente intensi del lavoro, la soffusa e ammaliante "You Chosen Misery" (il miglior pezzo del lotto?), l’ottima "Brother", dove Dane tocca la tematica del suo burrascoso rapporto con il fratello (tema già toccato in "My Acid Words" dei Nevermore), e la dura e disperata "August".
Figurano anche due cover, stravolte e placcate di puro metallo, una è "Patterns" di Paul Simon (uno dei musicisti preferiti di Dane, già omaggiato in passato con la cover estremizzata di The Sound of Silence), l’altra è "Lucretia My Reflection" (Sisters of a Mercy), incattivita e dotata di un ritmo davvero calzante, rielaborazione decisamente riuscita questa.
Il resto del disco si muove su livelli tutto sommato buoni, fra altri pezzi validi ("Obey") e altri un po’ più piatti. Come detto in apertura, questo rimarrà il primo e unico solo lavoro solista di Warrel Dane, il che lo rende a maggior ragione un lavoro da riscoprire per poter apprezzare appieno un interprete moderno unico, inimitato e inimitabile.
- Supergiovane
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