"Pigro", ritenuto da molti il miglior lavoro del Chitarrista Ivan Graziani, è un disco iconico già dalla copertina, che ritrae un maiale con indosso un paio di occhiali dalla montatura rossa, gli stessi che costituivano il marchio di fabbrica del cantautore abruzzese (e che non avrebbero sfigurato addosso ad un hipster moderno).
(il disco completo qui: https://tinyurl.com/yybxazam)
Immediatamente identificabile, evocativa e divertente, questa copertina copre quello che a tutti gli effetti è il primo disco della maturità di Graziani, nonché contenitore di alcuni dei suoi classici più famosi. Già l’apertura è memorabile con “Monna Lisa”, funk-rock surreale in cui un folle si introduce al Louvre per rubare il famoso dipinto e riportarlo in patria (non gli andrà bene); “Monna Lisa” è stata oggetto di diverse cover (da parte, tra gli altri, di Elio e dei Marlene Kuntz) ed è a tutt’oggi una canzone fresca e praticamente contemporanea per sonorità e attitudine (anzi, chi scrive accoglierebbe con favore un pop altrettanto avvincente da parte degli autori indie contemporanei, di cui Graziani è di fatto precursore).
Il lato A dell’LP continua con storie meno scanzonate, come l’angoscia di provincia narrata in “Sabbia del Deserto”, testo cupo e opprimente su musica scanzonata, nonchè fosco presagio della malattia che porterà via il Nostro ancora relativamente giovane; o ancora, la vita grigia e nevrotica della bella “Paolina”, ancora zitella a trent’anni. Le tinte virano decisamente al nero in “Fango”, storia di un giovane caduto nel vortice della criminalità organizzata, vittima di un destino sul quale ha avuto poco controllo.
Il lato B, per converso, si apre con toni più leggeri con la title track, impietoso ritratto di un italiano (forse modellato sul fratello di Graziani) erudito ma ottuso, ipocrita e perbenista, “pigro” poiché incapace di autocritica. Lo stesso discorso si può forse fare delle vetuste band prog riunite “Al festival slow folk di B-Milano”, delirante resoconto di uno dei tipici concerti rock in voga alla fine dei ’70, sulla scia del famoso “Parco Lambro”.
Paradossalmente, qualche vestigia prog-rock sembra apparire proprio nella successiva “Gabriele D’Annunzio”, perlomeno nella sua componente musicale, con quegli arpeggi di chitarra e quel flauto a fare un po’ Genesis vecchia scuola. In chiusura c’è “Scappo di casa”, un’altra storia amara di solitudine.
Le storie raccontate in "Pigro" hanno potenzialmente la forza di racconti brevi, per la loro capacità di trasmettere sentimenti di sottile angoscia e frustrazione di provincia, rabbia, o caustica ironia. Se dal punto di vista emotivo il gioco funziona, e la musica non fa che enfatizzare ulteriormente il messaggio (non bisogna dimenticare che stiamo parlando di uno dei più creativi e dotati chitarristi italiani di sempre), alcuni dei testi risentono il peso degli anni, vuoi per il lessico (“Fango”) o per la volontà di incastrarli in maniera a volte un po’ forzata (“Al Festival…”). Rimangono comunque perlomeno due classici imprescindibili di Graziani, l’opening e la title track, più altri due o tre brani struggenti che difficilmente troverete nelle antologie (“Paolina”, “Sabbia del Deserto”, “Scappo di casa”).
“Pigro” rimane inoltre, e non lo si può ribadire con abbastanza foga, uno dei prototipi del rock italiano, uno dei primi dischi a smarcarsi dagli stilemi angloamericani proponendo un suono orgogliosamente made in Italy, fiero persino della sua relativa provincialità. Che, nel caso specifico, è anche il suo marchio di unicità.
- Spartaco Ughi
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